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Lanciamo nel cielo i nostri canti. A Massimino.

di Matteo Malacrida


Fiumi di parole sono stati scritti intorno a Massimo Morsello, e provare ad arricchire con una propria riflessione il ritratto che da diciannove anni si fa sempre più sfaccettato e brillante risulta piuttosto complicato, quando non addirittura velleitario. Specie per chi, come me che vi scrivo, lo ha conosciuto soltanto molti anni dopo che una infame malattia ce lo ha sottratto in quella Londra che lo aveva accolto mentre l’italia (minuscola) lo aveva voluto di fatto esule. Militante, poeta, politico, cantautore: la vita di Massimino la conosciamo dagli esordi nel Fronte della Gioventù agli anni della immeritata latitanza londinese con il fratello Roberto Fiore (con cui fonderà Forza Nuova), passando per i Campi Hobbit, le pubblicazioni, i concerti. Una vita, insomma, vissuta per intero, nonostante i molti che in Patria ne aveva fatto un capro espiatorio da allontanare ed emarginare.


Massimino, più di tutto, è stato un Uomo che, nelle difficoltà estreme che ha dovuto affrontare in anni così terribili da sembrarci distanti secoli, ha saputo fare della propria esistenza un continuo di battaglie, scagliate con la sua voce inconfondibile e con la sua chitarra impugnata come arma contro il disordine costituito.

Contro il politicamente corretto, l’aborto, la tirannia democratica, la droga, il perbenismo, la globalizzazione, la distruzione della famiglia, il materialismo, il progressismo, la guerra: se non lo conoscessimo, potremmo dire che i suoi testi sono stati scritti oggi, a testimonianza del fatto che la sua è stata una battaglia di un conflitto ancora da vincere. Una battaglia, quella contro il tumore, l’ha persa, ma la ha saputa accettare: lucidamente, con forza fuori dall’ordinario, raccontandocela in una canzone (“Buon anno professore”) che è un inno alla vita ed alla speranza.

Non soltanto “canti contro…”, per l’appunto. Perché Massimino, coi suoi testi, ha saputo celebrare quanto nella sua vita aveva conosciuto e lo avevano esaltato: l’irrequietezza della gioventù, l’amore, il sogno, la poesia, l’Italia, la fede nel futuro. E quella nel Dio a cui più volte fa appello, dimostrando quella tensione verso l’altrove e verso l’Alto che tutti noi, cristiani o meno, dovremmo riscoprire.

A chi lo ha conosciuto, queste poche parole suoneranno superflue. Basterebbero infatti le sue per rendere “di troppo” le altre. Ma, più che per loro, questa mia riflessione la voglio lasciare a chi, anche nel nostro ambiente, lo ha sentito soltanto nominare di sfuggita e non ha mai avuto il privilegio, magnifico, di ascoltare una sua canzone.

Recuperare oggi l’opera di Massimo Morsello significa avere la possibilità di confrontarsi con il simbolo di una generazione scomoda e spesso mal compresa. Significa avvicinarsi un poco di più allo spirito con cui, in quegli anni colorati di sangue e di piombo, i giovani continuavano contro tutto e contro tutti la propria esistenza votata alla continua lotta ma anche all’elevazione di sé.

Significherà, infine, avere in ogni momento un “padre” da ascoltare e con cui emozionarsi. Perché il lato più bello della nostra vita, forse, è proprio questo: una chitarra ed un canto alla “bella luna” coi propri fratelli. Lanciando nel cielo i nostri “canti assassini”.


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