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Morire un giorno a Napoli

di Roberta Salerno


Italia, una volta Patria di poeti, santi e navigatori. Oggi terra di allenatori, virologi, magistrati e chi più ne ha più ne metta.


Chiunque, ormai, sente l'obbligo morale di sentenziare su qualsiasi argomento d'attualità, soprattutto se ignorante in materia.


Per una volta, quindi, concedetemi il lusso di conformarmi ai miei connazionali e dire la mia, per di più con la presunzione di saperne giusto un pelo in più rispetto a tanti altri, quantomeno perché ai piedi del Vesuvio ci sono nata e la provincia di Napoli la conosco fin troppo bene, così come i quartieri popolari della città. Perché, dalle mie parti, tante cose si vedono e si percepiscono fin da bambini, anche se provenienti da buone famiglie ed anche i tuoi genitori non hanno mai eluso neppure uno scontrino. Perché, quando in giro per la provincia ci si identifica come sangiuppese, è purtroppo naturale essere riconosciuti semplicemente come compaesani "d'ò Professore Vesuviano". E con la tua terra, volente o nolente, ti ritrovi a farci i conti.


  Che Napoli sia una realtà molto difficile è risaputo, così come è innegabile che versi in uno stato di assoluto degrado culturale ed economico. Un degrado, però, ben costruito, quasi cucito su misura, confacente a grandi progetti e grandi disegni, utili per chi ha il ruolo di gestire tutte le attività illegali presenti sul territorio, totalmente distruttivo per chi su quello stesso territorio, invece, vorrebbe almeno sopravvivere.


Tutto ciò è tornato alla ribalta da un paio di giorni, ossia da quando un ragazzino di appena quindici anni ha trovato la morte per mano di un giovane carabiniere.

E la morte è una cosa terribile. Sempre. Soprattutto se si è così giovani. Soprattutto se si viene ammazzati, così giovani.


Poco dopo, però, il paradosso: un pronto soccorso viene devastato, la caserma dei carabinieri viene assalita a colpi di spari ed un altro ragazzino, stavolta di appena ventitré anni, viene condannato non solo ad un processo che, per la giustizia italiana, significa fine pena mai, ma soprattutto alla gogna mediatica. Tutto questo perché costretto ad uccidere per difendersi.


Tanti, troppi, ritengono che la tragedia fosse evitabile, se il carabiniere avesse rifiutato di difendersi e consegnato al rapinatore, perché di questo si tratta, denaro ed orologio. Ma, su un'eventuale bilancia ed in queste particolarissime circostanze, siamo sicuri l'ago penda dalla parte del rapinatore?

Beh, per me quell'ago pende dalla parte di un ragazzo di appena ventitré anni, proveniente, come l'altro, da un quartiere disagiato, ma che nella vita ha deciso di servire lo Stato e il suo popolo. Di quel ragazzo che, spaventato da un casco integrale e una pistola, si è trovato costretto a difendere la sua ragazza e sé stesso sparando.

E per chi veste la divisa dell'Arma, sparare non è mai semplice.

Perché se la pistola pesa, una coscienza sporca di sangue molto di più, soprattutto nel cuore di un giovane servitore dell'arma.


L'italica ipocrisia continua, invece, a portarci a riflettere sul fatto che Ugo - così si chiamava il ragazzino - in fondo fosse un bravo ragazzo, solo tanto sfortunato.


Se sul "bravo ragazzo" ci sarebbe da discutere, sfortunato lo era di sicuro, e non perché ha incontrato la morte per mano di un militare, bensì per l'identità del suo vero assassino.

Perché sì, è vero, i colpi sono stati esplosi dalla mano più o meno capace di un giovane spaventato, ma io non ho mai sentito di ragazzi per bene freddati volutamente da carabinieri in libera uscita.


Ugo, purtroppo, è stato ammazzato dai suoi genitori e dall'educazione criminale con la quale è stato cresciuto.


Ugo è stato ucciso anche dallo stato. Ma non da quello rappresentato dal giovane militare, no!

È stato ucciso da un'Italia disattenta, volutamente distratta, perché incapace di offrire una prospettiva di vita migliore ai figli di Napoli,  città tanto incantevole quanto martoriata, che continua a prendere schiaffi, ma che prova comunque a restare a galla. Nonostante tutto.


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