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RADICES. Nicolás Gómez Dávila, un eremita reazionario.

di Andrea Piccinno


In questa rubrica, andremo continuamente alla ricerca ed all'analisi di uomini che, combinando l'importanza del pensiero con la bellezza dell'azione, siano riusciti a contribuire e a dar lustro al nostro Ideale eterno.

Vi è anche chi, però, per propria scelta, ha deciso di agire ben poco, ma questi non vuol dire abbia fatto meno di altri. Se di eroi in grado di costruire se ne trovano pochi, di grandi uomini in grado di distruggere, per porre le basi ad una nuova società, ancor meno. E Nicolás Gómez Dávila è indubbiamente uno di questi.

Reazionario per eccellenza, inclassificabile per statuto, il Nietzsche colombiano di cui ci apprestiamo a parlare ugge ad ogni definizione. Nei suoi brevi scritti, tutti in forma di brevi aforismi, ritroviamo la critica all'Occidente di Oswald Spengler, lo scetticismo di Emil Cioran ed un radicato antimodernismo di radice evoliana. I suoi aforismi fungono da medicina per molte malattie della modernità.

Come detto, Nicolás Gómez Dávila nasce a Bogotà, capitale della Colombia, il 18 maggio del 1913. È un figlio dell’alta borghesia sudamericana, la sua è una famiglia indubbiamente agiata: suo padre è un importante proprietario terriero oltre che banchiere, sua madre assolve a tempo pieno ai compiti del focolaio casalingo. A sei anni, per via del mestiere paterno, si trasferisce a Parigi. Qui compie studi umanistici che lo segneranno per il resto della vita, ma, ad appena ventitré anni, torna da solo a Bogotà, con un ampio bagaglio culturale occidentale. Una mente europea nel cuore dell'America Latina.

Rifiuta di laurearsi e di frequentare l'università, mostrando la più totale indifferenza nei confronti dei semplici titoli, valutati alla stregua di un semplice pezzo di carta. “Un diploma da dentista è degno di rispetto, uno da filosofo è grottesco”, scriverà.

Una volta tornato in Colombia, si sposa e si ritira nella sua nuova casa. Rifiuta anche di lavorare: campa di rendite delle attività paterne, dedicandosi esclusivamente allo studio e alla scrittura. Uscirà molto raramente dal suo piccolo studio a Bogotà, dove si dedica a ciò tutti i giorni fino a tarda notte.

Fedele al ruolo appartato che ha scelto per sé, declinerà importanti carriere politiche e allettanti proposte diplomatiche, come la candidatura alla presidenza della Repubblica nel 1958 e gli incarichi di ambasciatore a Londra e a Parigi.

Diffida dalle traduzioni dei grandi classici ed acquista solo opere in lingua originale, arrivando ad imparare greco, latino, inglese, tedesco, italiano, danese, russo e, ovviamente, lo spagnolo.

Scrive non come un filosofo, ma come un poeta. I suoi scritti sono dettati da un'esigenza esistenziale, ancor prima che politica. Produce poi un'opera inimitabile ed irregolare, "Escolios", testi clandestini pubblicati nell'arco di un quindicennio che contengono pensieri folgoranti sia per la loro abbagliante profondità che per lo stile raffinatissimo. Ha scolpito parole e concetto, animato dal demone della concisione. Come fece notare Franco Volpi, Nicolás Gómez Dávila aveva la maledetta ambizione di mettere sempre un libro intero in una pagina, una pagina intera in una frase e, questa frase, in una sola parola.

Scrive, infatti, oltre diecimila brevi frasi, frammenti fatti dalla stessa pasta della poesia, per la cura della scelta dei termini ed il suono delle parole. Sceglie accuratamente la sua forma: l'aforisma. L'esplicitazione secca delle idee, infatti, obbliga al pensiero onesto, senza la possibilità di occultare secondi fini, rendendo difficoltoso nascondersi tra poche parole come nascondersi tra pochi alberi.

Ritiene che trattati e lunghi libri si addicano esclusivamente a chi sia convenuto a conclusioni che lo soddisfino. Lui no, lui era ancora e fu sempre alla ricerca. E, proprio per questo, cade spesso in contraddizione. Contraddizioni che non solo ammette, ma che addirittura cerca, perché ritiene che queste, laddove lucidamente assunte, portano alla realizzazione di un pensiero importante e vigoroso.

Ne è grande esempio la sua fede, che forse mal si abbina alle sue opere, “Eppure l'unica cosa di cui non ho mai dubitato è l'esistenza di Dio” arriva a scrivere. La religione è, però, uno degli elementi costanti dei suoi scritti, che va a rivelare un cattolicesimo radicale e di principi preconciliari. Quando si tratta di definirsi credente, però, Gómez Dávila esita un attimo e risponde “più che un cristiano, sono un pagano che crede in Dio".

Raggiunge il successo solo a metà degli anni '50, quando le sue opere vengono tradotte e pubblicate in Germania. Conservatori come Dietrich von Hildebrand, Botho Strauss e Martin Mosebach diventano i primi grandi estimatori dello strano personaggio colombiano che, ormai, fa parte di quella esigua schiera di personaggi che, quasi indolenti, in disparte da tutto e da tutti, appaiono dal nulla e solcano le lande di quell'Olimpo dove regnano sovrani pochi, grandi filosofi.

È particolarmente amato soprattutto da Ernst Jünger, che lo definisce “una miniera per gli amanti del conservatorismo” e riconosce in lui lo spirito più autentico di quella Rivoluzione Conservatrice di cui lo stesso filosofo tedesco si è reso protagonista.

Lungi da lui, però, essere un conservatore: questo presupporrebbe ci sia qualcosa da salvare, mentre per lui non c'è nulla da custodire nella sua epoca, nessuno per cui lottare, solo qualcuno contro cui battersi. Si identifica, quindi, come simbolo per eccellenza dell'antimodernismo, reazionario per antonomasia.

La sua penna si scaglia contro tutti e tutto: disprezza l'entusiasmo del progressista, gli argomenti del democratico, le dimostrazioni del materialista. Definisce la libertà un “misero feticcio”, sull'uguaglianza dice che “gli uomini sono meno uguali di quelli che dicono e più di quello che pensano”. Rispetta e legge molto Karl Marx, ma mal sopporta i suoi seguaci. “Il militante comunista prima della sua vittoria merita rispetto. Dopo non sarà che un borghese indaffarato”.

Il suo è un pensiero prettamente gerarchico, perché ritiene l'intelligenza spontaneamente aristocratica, in quanto facoltà di distinguere differenze e fissare ranghi.

Nicolás Gómez Dávila crede, quindi, in una società di aristocratici, dove l'aristocrazia si compone non di nobili di nascita, ma da aristocratici per merito ed impegno intellettuale: spetta a loro guidare la società. Si scaglia, dunque, anche contro la sovranità popolare e la supremazia dei cittadini, corrispondenti ad un'errata divinizzazione dell'uomo.

“Con i miei attuali compatrioti ho in comune solo il passaporto: il Cattolicesimo è la mia patria” scrive.

Pur disprezzandola, passa tutta la sua età adulta e la vecchiaia nella sua Colombia, a Bogotà, dove è anche per vari anni Presidente del circolo musicale, oltre che molto amato dai cittadini che ormai ammirano questo pensatore sempre elegante, alto quasi due metri, con baffi austeri, portamento distinto e perennemente con sigaro e bastone.

Nicolás Gómez Dávila muore qui il 17 maggio 1994, alla vigilia del suo ottantunesimo compleanno.

Fra i suoi frammenti ha lasciato scritto: «Non è un’opera ciò che intendo lasciare. Le uniche che mi interessano si trovano a una distanza infinita dalle mie mani. Vorrei lasciare però un libriccino che, di tanto in tanto, qualcuno apra. Un’ombra tenue che seduca poche persone».


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