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Settantun anni di Almerigo Grilz, un esempio interminabile

Se quel 19 maggio non avesse incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, quest'anno avrebbe compiuto settantun anni e avrebbe migliaia di storie da raccontare.

E, probabilmente, sarebbe ancora in giro per il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica.


Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania: il reportage di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una grande passione.

Nato a Trieste l’11 aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù.

Quella che inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione, anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non c’è posto per un reporter free-lance “fascista”, anche se bravo e coraggioso.


Grilz infatti ama documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque stelle non mettono neanche piede. Con due amici della sezione triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine, Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan, invaso dai sovietici – racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto “Vita spericolata” di Vasco Rossi».


Almerigo Grilz è sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà.


In Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma all’estero Grilz comincia a farsi un nome.

Acquistano i suoi reportage le reti americane CBS e NBC, la televisione statale tedesca, il Sunday Times, l’Express.

Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il marchio di “fascista” pesa ancora troppo.

Solo il Tg1, Panorama e soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono il fronte “antifascista”.


Nella tarda primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage.

Il 19 maggio un proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative.

È il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in scarni trafiletti.

C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza: «Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi.


Aveva 34 anni e, secondo le sue volontà, viene sepolto in Mozambico.

Quindici anni più tardi l’amico Gian Micalessin realizzerà un documentario meraviglioso “l’albero di Almerigo” filmato sui luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.

Se il nome di Grilz è inciso sul monumento che “Reporters sans frontières” ha dedicato in Normandia a tutti i giornalisti caduti sul campo, da noi continua a creare imbarazzo e ostracismi.


Qualcuno l’ha definito l’inviato ignoto.

Per noi resta uno dei più bei esempi di coraggio e passione. Uno dei più bei esempi di libertà.




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