di Giuseppe Terone
Quando l’Italia nacque, nacque male. Suvvia, è inutile nascondercelo. L’unificazione operata da una famiglia reale del Nord-Italia, attraverso plebisciti decisi a tavolino e spedizioni fantasma coperte da corruzioni di ufficiali, produsse un Paese che non riconosceva se stesso. La classe dirigente risorgimentale rubacchiò per tutta Europa forme di Governo e d’amministrazione, furti che regalarono all’Italia una monarchia parlamentare (inglese), una suddivisione in province e prefetture (francese) e uno Statuto (orientato sul modello spagnolo).
Scrisse il conservatore Giuseppe Prezzolini che le uniche forme di Governo italiane (cioè il Comune, la Signoria e il Papato) non furono prese in considerazione in nessun punto della formazione del nuovo Stato. Questa confusione si riversò anche sui cittadini e sugli elettori, dacché produsse un ribaltamento del ruolo dei partiti. In tutta Europa la Destra era illiberale e reazionaria, in Italia era liberale e napoleonica. In tutta Europa la Sinistra era internazionalista, in Italia era garibaldina.
Si continuò così. Per sempre. Alla nascita della Repubblica, il Paese non si trasformò in una democrazia, ma in una partitocrazia. Laddove per i vent’anni precedenti il partito fascista aveva offerto a cani e porci la possibilità di farsi una vita a condizione di tesserarsi, adesso c’erano tanti partiti che offrivano più o meno lo stesso risultato, grazie alla colonizzazione della pubblica amministrazione, delle forze armate, delle scuole e delle università. Sicuramente meglio di una dittatura, chiaramente, ma non si può chiamare democrazia.
Per questo motivo, ogni successivo atto di “democratizzazione” fu, sì, un passo verso maggiore consapevolezza popolare ma significò soprattutto aprire ai partiti le porte per nuovi banchetti. Alla fine dei conti, la situazione è da ridere: tutti i partiti cercano, consciamente o inconsciamente, di replicare l’occupazione parassitaria delle istituzioni, la stessa che il fascismo aveva conquistato con la violenza, ma con menzogne.
Insomma, per tutti questi motivi è necessaria una riforma istituzionale. Ma quale? Il dado è tratto: non possiamo risvegliare il Comune né restaurare la Signoria, né tantomeno possiamo restituire al Papa il potere temporale. Questo abbiamo, questo miglioriamo. Per rendere il sistema più sicuro di sé e legittimato senza che i partiti si intrufolino maliziosamente, l’unica riforma pensabile è quella in direzione semipresidenziale. Il Presidente della Repubblica sarebbe eletto direttamente dal popolo (auspicabilmente a prescindere dai partiti, realisticamente sarebbe una lotta tra capi), diventerebbe il Presidente del Consiglio dei Ministri e nominerebbe un Primo Ministro, il quale formerebbe il Governo. Cosa cambia? Il Governo avrebbe un indirizzo chiaro, il che gli permetterebbe di lavorare fedelmente al voto popolare. E non senza tener conto del rapporto di fiducia tra il Parlamento e il Governo.
Il dubbio, però, rimane: siamo certi che un Presidente della Repubblica politico -viva Dio- si curi più del Paese che del suo partito? Chissà.
Oggi, comunque, si parla del fangoso premierato e di riprendere ad eleggere il Presidente di Provincia e il consiglio provinciale direttamente...
Auspicare una Riforma Presidenziale o Semipresiziale significa dover riscrivere la Costituzione intera, senza contare che ci sarebbe bisogno di un sistema poco partitico, di una legge elettorale come il Mattarellum, ma che venne dichiarato incostituzionale; oltretutto la nostra costituzione prevede diversi compiti per il Presidente della Repubblica tra cui: presiedere il Consiglio superiore della magistratura (art. 104); nominare un terzo dei componeti della Corte Costituzionale (art.135); concedere la grazia e commutare le pene (art. 87).
Tutto ciò dovrebbe essere riscritto, perché entrerebbe in maniera diretta la politica all'interno di organismi così imponenti come la CC e il CSM, ed è per questo che l'attuale Presidente del Consiglio, la nostra Giorgia Meloni sta puntando sul premierato, ma sia chiaro che se insieme…