Oltre la Gabbia delle Etichette: un articolo volutamente polemico
- Redazione
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 4 min
Di Riccardo Mulas
Nell’attuale dibattito politico e culturale, si assiste sempre più spesso a cortocircuiti ideologici sorprendenti, o forse solo apparentemente tali. È sufficiente che qualcuno, identificabile come “di destra”, esprima un pensiero non conforme allo schema classico del liberalismo atlantista, perché si scateni la reazione scomposta di sinistroidi ortodossi o sedicenti “destri” liberali. Quando un discorso tocca in modo trasversale temi come la critica alle degenerazioni del capitalismo, la difesa dei lavoratori o l’autodeterminazione dei popoli, con riferimento, ad esempio, alla Palestina o alla Siria, si genera un fastidio palpabile, quasi fosse un’eresia.
È come se non fosse ammissibile che un “destrorso”, per usare una semplificazione volutamente ironica, possa, allo stesso tempo, apprezzare il pensiero di autori come Jünger o Brasillach, e leggere con interesse “I doveri dell’uomo” di G. Mazzini, “I Quaderni del carcere” di Gramsci o i Diari del Che. Questa visione rigida e castrante dell’identità ideologica è figlia di una semplificazione binaria che vorrebbe ridurre il pensiero umano a due caselle: sinistra o destra, progressista o conservatore, patriota o cosmopolita. Un modello che non solo è riduttivo, ma intellettualmente sterile.
Alla base di questo schema vi è spesso una miscela pericolosa di ignoranza o conformismo. Si pretende di giudicare la coerenza di un pensiero politico secondo coordinate precostituite, senza ammettere che la storia, e con essa l’evoluzione delle idee, è fatta di contaminazioni, fratture, contraddizioni feconde. La realtà non si piega alle etichette, e men che meno lo fa la complessità del pensiero.
Ne è un esempio lampante la destra contemporanea. Una parte consistente di essa, quella che potremmo definire “mainstream”, sembra identificarsi unicamente con il paradigma liberale, atlantista o mercatista. Ogni deviazione da questo asse viene guardata con sospetto: parlare di giustizia sociale, di sindacalismo nazionale, di sovranità culturale o identitaria è quasi una bestemmia, un tradimento. Eppure, questa chiusura mentale tradisce non solo una povertà intellettuale, ma anche una grave ignoranza storica.
La destra ha avuto, nella sua storia, anime profondamente diverse. C’è stata, e c’è ancora, una destra sociale, sindacalista, che rivendica il primato del lavoro sull’usura finanziaria, che difende le radici ma rifiuta l’imperialismo; una destra “terzomondista”, che ha riconosciuto in figure come Che Guevara, Thomas Sankara o Ahmad Massoud esempi di lotta contro il dominio coloniale e imperialista, non per adesione all’ideologia comunista, ma per spirito rivoluzionario, per senso dell’onore o dell’identità. Una destra “terzaviista”, che ha rifiutato di piegarsi alla logica binaria dell’asse Washington-Mosca, rivendicando invece un’autonomia di pensiero e d’azione, in nome di una terza via fondata su identità, giustizia sociale o sovranità. È da questa visione che nasce anche una riflessione più alta, più ampia: una destra, quella di Adriano Romualdi, che parla di Europa Nazione, riscoprendo il valore della Nazione non come guscio chiuso, ma come cellula viva di una civiltà più grande, radicata nella storia e nello spirito d’Europa. Un’Europa intesa come vero Occidente, non quello costruito a tavolino da Wall Street o dal Pentagono, ma quello dei popoli, delle tradizioni, della cultura classica o cristiana, della filosofia o della bellezza. Un’Europa che non ha bisogno dell’egemonia americana per esistere, e che anzi trova la propria anima solo liberandosi dal giogo di un atlantismo cieco o strumentale.
Esiste anche, e va riscoperto, un ecologismo di destra: non quello ideologico o ideologizzato, ma un sentimento profondo di rispetto o sacralità per la natura, vista come essenza primaria della vita, come forza suprema o inarrivabile, che impone all’uomo umiltà, equilibrio o misura. La natura non è merce, non è risorsa da sfruttare, ma patrimonio spirituale o simbolico. Difenderla significa difendere anche l’anima dell’uomo, che il capitalismo riduce sempre più a una macchina senz’anima, programmata solo per guadagnare o consumare, priva di senso o di radici. Un pensiero che affonda le sue radici in figure tutt’altro che identificabili con la sinistra o il comunismo, come Pino Rauti o Paolo Colli.
È questa una visione che si contrappone alla mentalità amorfa dell’interesse individuale, dell’egoismo elevato a sistema, dello “io” sopra ogni cosa. La destra che rivendico è quella del NOI, della comunità, della partecipazione, della solidarietà identitaria che unisce anziché disperdere, che costruisce anziché dividere, e che rifiuta la logica del conflitto tra classi per ricomporle in un’unità superiore, fondata su un comune denominatore: la Patria. Una destra che riconosce nei valori spirituali, nella trascendenza, nella tradizione, nella fedeltà a qualcosa di più alto di sé, l’argine contro l’appiattimento morale del nostro tempo.
Rifiutare queste sfumature significa ridurre la politica a un teatrino di slogan o posizionamenti preconfezionati. Significa impedire alla destra, e alla cultura politica in generale, di crescere, contaminarsi o superarsi.
Essere di destra, oggi, dovrebbe significare prima di tutto rifiutare le semplificazioni. Vuol dire difendere la sovranità, la dignità dei popoli, la giustizia sociale, il valore della comunità o della patria, la centralità della natura o della spiritualità, ma anche saper guardare con onestà intellettuale a chi, da percorsi diversi, ha combattuto battaglie simili. Non per aderire alle loro ideologie, ma per riconoscere il valore delle idee che sfidano il potere costituito.
Superare la dicotomia destra-sinistra non vuol dire annullare le identità, ma liberarle da schemi paralizzanti. È solo riscoprendo la pluralità del pensiero che si può tornare a costruire una visione del mondo radicale, coerente e, soprattutto, viva.
Comments