Sognavo di essere Agostino
- Redazione
- 15 ore fa
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Di Gabriele Sciarratta
È il 30 maggio del 1984, Roma è sospesa, è una concentrazione di cuori che battono all'unisono, è il giorno della finale di Coppa Campioni, il massimo trofeo per club, attesa all'Olimpico contro il Liverpool di Joe Fagan, un tecnico che si è ritrovato al primo anno da allenatore della prima squadra capitanata dal letale Phil Neal e trascinata dai gol di Kenny Dalglish, una delle prime punte più forti del calcio britannico di sempre e difesa tra i pali da Grobbelaar, un portiere imprevedibile capace di confondere l'avversario.
Il Liverpool si porta alle spalle un sostanzioso palmarès, 3 Coppe dei Campioni vinte,
la Roma a differenza, neanche una, non ha mai giocato a livelli così alti, è la prima volta.
È la prima volta anche per Agostino Di Bartolomei, primo capitano romano e romanista nella storia della Roma, nato e cresciuto a Tor Marancia, verrà intercettato da una squadra satellite della Roma, l’OMI, debutterà in prima squadra giallorossa a 17 anni.
Facciamo un salto di tempo, Ago ha 29 anni, porta la fascia al braccio ed è già campione, ha vinto con la Roma due Coppe Italia e l'anno prima della finale, regala alla sua città il secondo scudetto della sua storia, Roma è ancora giallorossa, i vessilli sono rimasti in porto.
È un leader silenzioso, rispettato e amato da tutti, il suo nome gridato durante la lettura della formazione è sempre l'ultimo, il più atteso e subito viene sempre seguito da cori della Curva Sud in suo onore: “Agostino gol”.
È inoltre un regista arretrato, elegante e piazzato nei movimenti, infallibile dal dischetto, ha un tiro e una potenza inarrivabile e un cuore da tifoso che nessuno riesce a spegnere.
Agostino è già bandiera di un calcio che è ancora vissuto dalla gente.
Il fischio di inizio segna l'avvio della finale, i Reds passano subito in vantaggio al 13’, Pruzzo prima della fine del primo tempo, rimette la partita in pari, è 1-1.
Passa il secondo tempo, poi i supplementari, si arriva ai calci di rigore, una novità per quella competizione.
Il primo a presentarsi al dischetto è Steve Nicol, sbaglia, il tiro è troppo alto, Roma esulta.
È il momento di Agostino, un tiro che verrà ricordato per sempre, sfonda la porta, la Sud crolla.
Arriva il capitano inglese, segna.
È il turno del campione di Nettuno, Bruno Conti, tira troppo alto, lo stadio si ricompone, gelo.
Souness tira un'altra ventata d'aria fredda che colpirà la Roma, entra in porta.
Righetti interviene, segna il 2-2 è parità ora.
Il Liverpool non ci sta, ne segna un altro.
Francesco Graziani che in passato regalò la Coppa Italia alla Roma, sbaglia il tiro, troppo alto, è ancora 3-2 per il Liverpool.
Concluderà Alan Kennedy segnando il 4-2 dal dischetto nominando così il Liverpool campione d'Europa per la quarta volta nella sua storia.
La città è pietrificata, la più grande gioia si è trasformata nel più lacerante dei dolori.
Il 26 giugno 1984, la Roma batte 1-0 il Verona nella finale di ritorno della Coppa Italia, Agostino alza il trofeo al cielo, la vittoria sa d'amaro, il suo sguardo non vedrà neanche un sorriso quella sera, è la sua ultima partita da giallorosso e da capitano della squadra che più di tutto ha amato.
Si necessita un cambio radicale, il presidente Viola nomina allenatore Sven-Göran Eriksson, il suo calcio è veloce e verticalizzante, non compatibile con la figura tecnica di Agostino, il capitano della Roma non rientra più nel quadro della squadra, verrà ceduto al Milan, tornerà da Nils Liedholm, l'allenatore che lo ha cresciuto come un figlio.
Anni dopo dirà: “so che lui ha sofferto tantissimo, perché sperava di concludere la sua carriera a Roma”.
Giocherà col Milan fino all’87, ma Sacchi gli scarica l'eterno ritorno del passato.
Entrerà nel Cesena, farà un ultimo anno in Serie A, trascinando la squadra alla salvezza.
Si trasferirà poi alla Salernitana, regalerà una storica promozione alla squadra campana, con la fascia al braccio da capitano.
Nel 90’ si ritira, ma è ancora pieno di vita, fonda una scuola calcio per bambini che porta il suo nome, dichiarerà: “a me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”.
Aspetterà con ansia fino all'ultimo una chiamata da Roma, per rientrare in società o da qualche parte d'Italia per prenderlo come allenatore, ma la storia si ripeté, il campione è di nuovo dimenticato, lasciato da parte, la logica del calcio del tempo era vincere, un uomo di valori non avrebbe portato nulla.
Neanche la Nazionale, nonostante la sua carriera stellare, non lo convocò mai in prima squadra.
Aspetterà quattro anni fino ad arrivare a quel giorno in cui il capitano silenzioso si tolse il peso da dosso.
Ago era solito girare con una calibro 38 per autodifesa, dato dai trascorsi e le minacce subite in passato.
Mirò al cuore, troppe cose non andavano, troppe opportunità perdute, troppi dolori.
Era il 30 maggio del 1994, erano passati 10 anni dalla sconfitta col Liverpool, Agostino si tolse la vita…la data era un caso? o un atto voluto e provocatorio contro quel calcio fatto di denari e logiche di conquista che lo avevano tradito durante tutta la sua carriera?
L'ultima bandiera di un calcio fatto d'amore e di popolo, scelse di nuovo il silenzio, un assordante silenzio.
Sono passati anni da quel 30 maggio, oggi Agostino è ancora bandiera di quel calcio che crede; in Curva Sud i vessilli portano il suo volto, le canzoni che si intonano lo citano, Venditti gli dedicherà una canzone, “Tradimento e perdono”,
De Gregori scrisse, ispirandosi alla storia del capitano “La leva calcistica della classe 68’ pietra miliare della musica italiana, Marco Conidi rivendicherà il suo sogno di essere Agostino nel nuovo inno della Roma che spopolerà negli inizi degli anni 2000,
le strade e i parchi portano il suo nome, anche i film e i libri.
Oggi è consacrato come uno dei calciatori più forti e importanti che Roma e l'Italia abbiano mai visto.
«I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile.»
Gianni Mura
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