ACCA LARENZIA 1978: L’ODIO ROSSO, LE NEGLIGENZE DI STATO E IL VALORE DEL RICORDO
- Redazione
- 7 gen 2021
- Tempo di lettura: 4 min
di Matteo Malacrida e Mattia Vicentini
E' il 7 gennaio 1978 quando, nel tardo pomeriggio, cinque ragazzi del Fronte della Gioventù escono dalla sede romana del Movimento Sociale Italiano di via Acca Larenzia per pubblicizzare con un volantinaggio, insieme ad altri militanti che li aspettavano in piazza Risorgimento, un concerto degli Amici del Vento.
All’uscita, vengono investiti da una raffica di colpi d’armi automatiche: Franco Bigonzetti (20 anni) muore sul colpo; Francesco Ciavatta (18 anni), nel tentativo di sfuggire all’agguato terrorista, viene rincorso ed assassinato; solo gli altri tre riescono a rifugiarsi all’interno della sede.
Nelle ore successive, sconvolti dall’ennesimo attentato a sfondo politico di quei terribili “anni di piombo”, i militanti organizzano una manifestazione sul luogo della tragedia: quando un giornalista della Rai getta a terra un mozzicone di sigaretta nel sangue rappreso di una delle vittime, gli animi inevitabilmente si accendono di fronte al gesto vile e vergognoso. Gli scontri che ne nascono portano all’intervento delle forze dell’ordine: partono alcuni colpi, e i testimoni raccontano di aver visto il capitano dei Carabinieri Edoardo Sivori sparare mirando ad altezza d'uomo. La sua arma si inceppa, l'ufficiale si fa quindi consegnare la pistola dal suo attendente e spara di nuovo: questa volta, centra in piena fronte Stefano Recchioni (19 anni).
Tre vittime innocenti in poche ore: due per mano dell’odio rosso, una per mano dell’odio di Stato. Unico, però, il movente: l’antifascismo militante che, in quegli anni, mieteva vittime convincendo l’opinione pubblica che uccidere un fascista non fosse reato.
Chi è chiamato a fare luce sugli eventi di quel tragico giorno, evidentemente, prende alla lettera il motto della sinistra extraparlamentare: il capitano dei Carabinieri Sivori, timidamente indagato, viene prosciolto definitivamente a cinque anni di distanza. Soltanto nel 1987, le confessioni della comunista pentita Livia Todini portano all’arresto di quattro militanti di Lotta Continua: uno di questi, Mario Scrocca, si suicida in carcere; gli altri tre, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis vengono rapidamente assolti.
Ancora oggi, nessuno ha pagato per l’assassinio di Franco, Francesco e Stefano: Acca Larenzia resta una delle più profonde ferite nella storia repubblicana. Una ferita che, per negligenza, responsabilità rimbalzate e volontà di coprirsi a vicenda, rimane aperta e sanguinante.
Per quegli anni, in piena “strategia della tensione”, la strage rappresenta un punto di non ritorno: Franco e Francesco, giovanissimi, erano benvoluti da tutto l’ambiente della destra giovanile italiana, che infatti accorre numeroso sul luogo.
I loro amici, nella protesta serale in cui venne assassinato anche Stefano, si rendono conto che né lo Stato né il MSI sarebbero più stati in grado di difenderli da un odio vile che, ogni giorno, spargeva sangue nelle strade: quel giorno, molti sceglieranno la via dello spontaneismo armato, ribellandosi a quelle Istituzioni che ormai da anni stavano abbandonando, per ideologia, un’intera generazione.
Dalle parole di Francesca Mambro, che in quell’occasione prenderà come molti altri la strada dell’eversione attraverso i Nuclei Armati Rivoluzionari, emerge chiaramente la situazione di totale abbandono di cui erano vittime i giovani militanti di destra: «La reazione immediata, mia e di tanti, fu la paralisi, come quando ti muore un parente. Ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. Il Movimento sociale italiano non ebbe alcuna reazione nei confronti dei carabinieri, probabilmente per difendere interessi e posizioni che non avevano nulla a che fare con la nostra militanza. Noi ragazzini venivamo usati per il servizio d'ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell'occasione dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode, come denunciare i carabinieri e il loro comportamento, allora non valeva la pena. Per la prima volta i fascisti si ribellarono alle forze dell'ordine. Acca Larenzia segnò la rottura definitiva di molti di noi con il Msi. Quell'atteggiamento tiepido e imbarazzato nei confronti di chi aveva ucciso Stefano significava che erano disposti a sacrificarci pur di non mettersi contro le forze dell'ordine. Non poteva più essere casa nostra.»
L’onda lunga di quel 7 gennaio 1978 porterà poi, a distanza di un anno, all’assassinio di altri due giovani studenti di destra: durante la prima commemorazione, dispersa dalle forze dell’ordine, Alberto Giaquinto (17 anni) viene inseguito da una volante e freddato alla testa dai colpi del poliziotto Alberto Speranza; nel frattempo, un commando dei “Compagni organizzati per il comunismo” assalta un bar ammazzando Stefano Cecchetti (18 anni). Soltanto Speranza, a distanza di dieci anni e dopo quattro processi, sarà definitivamente condannato per eccesso colposo di legittima difesa (e non per omicidio volontario, come invece la situazione suggeriva); gli assassini comunisti, invece, non verranno mai trovati.
Acca Larenzia è una delle troppe storie di sangue che hanno macchiato la Repubblica a causa dell’odio comunista e della volontà di non perseguire la via della verità e della giustizia.
È nostro dovere far ricordare al mondo questi barbari omicidi: il ricordo di ragazzi della nostra età, che credevano in ciò che facevano e che con noi condividevano una visione del mondo, nati però in un epoca nella quale essere di destra poteva significare anche pagare con la propria vita il prezzo dell’amor di Patria.
Una generazione di ragazzi e ragazze che portavano in cuore la Fiaccola tricolore, un simbolo senza epoca che reca con sé decenni di lotte, vittorie, valori e tradizioni che hanno plasmato lo scenario politico e culturale italiano. A quel simbolo, guardiamo ancora oggi con riverenza e con la certezza di tornare a farlo sventolare sulle nostre bandiere: anche nel loro ricordo, anche nel loro rispetto.

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