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Addio, San Siro!

di Mattia Ferrarese


Ti si accende anche l’anima in mezzo a 70mila persone che urlano all’unisono.

Anche nelle più fredde serate milanesi.


Eppure, qualche borghese ben incamiciato seduto sui più alti scranni della politica cittadina ha deciso di spegnere tutto.

Di spegnere le luci a San Siro.

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Il rito, ognuno con il proprio dopotutto.

Il panino con la birra prima di entrare e la sciarpa comprata nuova nuova, con gli avversari di giornata ricamati sopra.

O magari quella di sempre, perché cambiarla porta palesemente sfiga.


Il proprio settore sul biglietto rigorosamente stampato e il bip dei tornelli nel frastuono generale, ma non prima delle foto di rito.

Per dire che anche stavolta abbiamo potuto sorridere, giusto prima di entrare.

Almeno senza ancora aver sofferto per 90, schifosi e sudati minuti.


Casciavit e Baüscia, Curva Sud o Nord.


Una scelta che è sempre dannatamente troppo facile per chi a Milano ci vive da generazioni, perché alla fine te la porti dietro ancor prima di nascere.


E un’altra birra o, alla peggio, un bel caffè Borghetti.


La Scala del calcio, la conoscono così in tutto il mondo.

Pure qualche turista che passa di qui solo per poter dire di esserci stato almeno una volta nella vita e biascica in un italiano insperato questo soprannome dai toni poetici.

E partono i cori, i tamburi di una volta e anche qualche fumogeno, ormai introvabili sugli spalti.

Figuriamoci in campo, dove hanno lasciato più tracce e nebbia loro, nella storia del calcio -e della Champions League- che le giocate di mezza serie A.


Ci vogliono togliere tutto, il sogno e l’incubo.

Il Diavolo e il Biscione.

Berlusconi e Moratti, i tre olandesi o i tedeschi, i brasiliani e gli argentini.

Maldini e Zanetti.

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Pure quel penoso terzo anello fatto in fretta e furia per i Mondiali del ‘90 e di cui la sola cosa comoda sono i bagni e i bar senza coda, perché di riconoscere qualche giocatore senza binocolo manco se ne parla.

Figuriamoci di riuscire a capire se la palla sia entrata in rete o finita addosso ai fotografi.

Praticamente festeggi per osmosi.


Ci vogliono togliere San Siro e ci stanno riuscendo. Svendendolo.

Tutto questo perché ormai nel calcio moderno non compri più nessuno di serio se non hai lo stadio di proprietà.

Anzi, in comproprietà in questo caso.


E chissenefrega, vorrebbero farci credere, se lì dentro c’é stata gente sull’orlo del collasso per i sogni d’Europa o per i tricolori sul petto.

Non gli importa dei bambini che ancora oggi ricordano le giocate di Ronaldo il fenomeno o di Kakà con cui sono cresciuti, la fatica e le botte di Oriali o il pallone d’oro di Rivera.

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A loro non interessa se sei di Piazza Axum o se ti fai ore di prepartita al chiringuito in Moratti.


Soldi, ristoranti, alberghi.

Del “Giuseppe Meazza” forse resterà una colonna, a imperitura memoria di quello che é stato e di cosa abbia rappresentato questo stadio. Per Milano, per il Mondo.


Teatro di due mondiali, gli unici giocati nel Bel Paese.

Palcoscenico di innumerevoli partite, di campionati contesi col coltello tra i denti e tacchetti sui parastinchi. Con la canfora per gli scarpini e i fischi se sbagli un passaggio nella tua metà campo.

Maxischermo di coreografie che ci invidiano, da sempre, in tutto il mondo.

Banco di prova per le primordiali tifoserie organizzate, dalla Fossa dei Leoni ai Moschettieri, dalle Brigate Rossonere agli Aficionados.

Hanno già chiuso il sipario e tra un po’ si venderanno anche gli ultimi tifosi veri rimasti dentro lo stadio, quando molti sono già in coda per tornarsene a casa, bofonchiando qualcosa contro l’arbitro o rimuginando su quel pallone stampato sul palo. Che magari gli avrebbe pure fatto vincere la giornata al fantacalcio, se fosse entrato.

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Non ci lasceranno nemmeno le briciole degli scontri epocali nei derby di Champions League, figuriamoci del 6-0 o del recente scudetto in faccia.

E no, non sarà sufficiente costruire un nuovo stadio proprio lì di fianco, quasi a sfregio e in barba al verde o agli spazi pubblici che basterebbe riqualificare seriamente per dare servizi e parcheggi dignitosi ai tifosi.

Per dare vita eterna ad uno stadio centenario.


Basti pensare che il 1º agosto del 1925 venne posata la prima pietra e vennero portati 80 chili di gesso per tracciare le linee del campo: il Meazza accompagna da sempre la vita dei milanesi, con le pecore al pascolo degli anni ‘30, attraverso le migliaia di bici degli anni ‘70, vittime dell’austerity e della crisi petrolifera, fino alle “Notti magiche” con l’apertura di Italia ‘90.

E non fatemi parlare dei nomi che hanno solcato quel campo in occasione dei Mondiali o finiamo a fare notte fonda, finendo pure le ultime scorte di Borghetti.

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Ma non resteremo qui a piangere, se non per nostalgia e per il mare di ricordi che ci riempie l’anima.

Per quella fidanzatina che abbiamo portato in motorino fuori dai cancelli, a quattordici anni e quel monumento ci sembrava persino più umano del Duomo. Ci rincuorava, sperando di portare a casa qualche farfalla nello stomaco e la malcelata lungimiranza di tornarci un giorno insieme, con le maglie dello stesso colore a urlare fino allo sfinimento quando la palla gonfia la rete.

Non ci saranno più le rovesciate del Bonimba e le percussioni incisive di Provvidenza Massaro.


Ma cosa vogliono capire quei quattro borghesi imbellettati della storia di Milano e del valore di San Siro?

Ci hanno tolto tutto questo.

Per incapacità ed ingordigia, per mancanza di visione ed interessi speculativi.

Le luci a San Siro, questa volta, non le accenderanno davvero più.

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