Di Maria Vittoria Giglio
“Tu regere imperio, Romane, populos, memento (hae tibi artes erunt), pacisque ponere morem, parcere subiectis, debellare superbos”
“Tu, o Romano, ricordati di governare i popoli -a te si addicono queste arti- di porre regole alla pace, di risparmiare i sottomessi e di debellare i potenti”
In questa ottica, riprendendo le parole della “katabasis” (scesa negli Inferi) da parte di Enea, contenuta nel VI libro dell’Eneide virgiliana, si vuole ricordare l’immenso senso patriottico dei nostri avi, in occasione del duemilasettecentosettantaseiesimo
anniversario dalla fondazione dell’Urbe.
Isolando per un momento il fuorviante intento encomiastico dell’opera (si rammenti il periodo di composizione, durante il quale regnava Augusto, alla ricerca costante di valorizzazione politico-culturale), la magnificenza di queste parole, nascosta ad alcuni che amano definirsi pacifisti, risiede in quell’amor di Patria volutamente cancellato con il passare dei secoli, rimasto vivo, dalla caduta dell’imperium a oggi, in pochissime persone.
Celermente la trama:
Enea, nel mezzo di uno scenario tanto triste quanto risolutivo per il finale glorioso della vicenda, con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Iulo davanti a sé, tenendolo per mano, come guida verso il futuro, inizia il suo patetico peregrinare. In seguito vi è il contatto con l’Ade per cui rivedrà il padre neo-defunto che gli passa in rassegna tutti gli eventi significativi della Caput mundi, da Romolo e Remo alla contemporaneità. Dopodiché, le navi dardane approdano sulle coste cartaginesi, qui ha inizio la storia d’amore tra la regina Didone e il “creator”, terminata con l’abbandono del troiano e la leggenda di carattere eziologico sull’atavico odio tra Puni e Romani. Infine al teucro manca la scacciata delle popolazioni autoctone dalle coste laziali per potersi insediare.
Enea uccide Turno, re dei Rutuli, durante un duello.
I critici fanno notare come, durante il racconto, muoiano tanti ragazzi, decessi certamente ingiusti poiché la vita di un giovane non dovrebbe mai essere sacrificata, ma allo stesso tempo propedeutici alla creazione di un sistema rettosi per undici secoli consecutivi, tra i più longevi della storia.
Per giunta, quello di Roma, almeno nel periodo tardo repubblicano-inizio imperiale, è stato l’unico vero promotore di unità nazionale, limitatamente all’attuale penisola, prima del 1861.
Prima che migliaia di altri animi novelli decidessero di dare la loro vita per liberarci definitamente dal cancro delle invasioni belliche e del fenomeno “usare l’Italia a proprio piacimento”.
Prima che, a cavallo tra il 1915-1918, i “giovanetti”, classe 1898 e 1899, accorati per uno scopo maggiore e cioè ridare grandezza territoriale alla loro Nazione, usurpata da altre potenze, morissero al freddo nei combattimenti della Grande guerra.
Roma è un modello quando viene rapportata a giganti odierni, da vedere bene la frase d’apertura, è un paradigma per l’altro sistema giudiziario: common law, nella Curia le sentenze dei giudici erano legge, attualmente negli Stati Uniti con questo criterio, un provvedimento può andare a modificare un articolo della loro beneamata Costituzione.
Roma è fonte di sapienza ingegneristica, si pensi alle infrastrutture tutt’oggi esistenti, “pantaresistenti”, è maestra di civiltà, è signora di province, è istituzione, è un crogiolo di scuole di pensiero, è gloria, è forza, è coraggio, è aeternitas
Ed è per questo che non morirà MAI!
Auguri, Urbs.
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