“Avanti ragazzi di Buda”. Cosa può insegnarci la rivolta d’Ungheria?
- Redazione
- 23 ott 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Sessantaquattro anni fa, l’insurrezione dei patrioti ungheresi contro il regime. Che oggi, tra un DPCM e l’altro, non è più soltanto uno spettro.
di Matteo Malacrida
Il 23 ottobre del 1956, primi in Europa, i giovani ungheresi alzavano la testa contro il feroce e sanguinario dominio sovietico che occupava la patria magiara dal settembre 1947: il quadro politico, ormai ridotto ad una dittatura comunista retta sul sistema del Partito unico eterodiretto dall’URSS, non avrebbe certo potuto cambiare senza una presa di coscienza ed una chiamata alle armi generale da parte, anzitutto, dei giovani studenti e lavoratori d’Ungheria.
Nel pomeriggio di quel giorno di sessantaquattro anni fa, proprio gli universitari di Budapest rappresentarono la scintilla attorno cui divampò l’incendio della rivolta, che in poche ore contava già duecentomila patrioti diretti verso il palazzo del Parlamento: attraversato il Danubio, venne abbattuta l’orrenda statua di Stalin che, morto già da tre anni, ancora simboleggiava il terrore rosso che si era impadronito dell’Ungheria con la violenza, e vennero strappati dai tricolori ungheresi gli stemmi comunisti. Simboli o poco più, è vero: ma una rivoluzione, per funzionare, ha bisogno di distruggere le effigi di un passato tremendo.
Prima che i giovani insorti potessero trasmettere via radio il proprio comunicato, la repressione comunista aprì il fuoco per uccidere: ne caddero a centinaia, mentre nei palazzi del potere ci si affannava a chiedere l’intervento sovietico. Che non si fece attendere: nel giro di qualche settimana, con la complicità di silenziosi governi occidentali anticomunisti soltanto nelle campagne elettorali, l’Armata Rossa raggiunse ed assediò Budapest con duecentomila soldati e quattromila carri armati, spegnendo nel sangue l’insurrezione dei giovani ungheresi.
Chi era sopravvissuto avrebbe avuto davanti altri quattro decenni di regime, fino al suo naturale collasso quanto, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, veniva rivelata al mondo la menzogna comunista e da Mosca a Berlino cadevano al suolo le bandiere rosse che troppo avevano terrorizzato i popoli europei.
Quel giorno, per chi non trascura e anzi coltiva ogni giorno l’amor di Patria e il valore più alto della Libertà, è oggi simbolo di una lotta impari, combattuta da giovani mossi solo dalla voglia di riscattare il proprio popolo contro la violenza disumana del comunismo. Al caldo delle nostre case, immersi come siamo nei privilegi d’una vita tutto sommato priva di oppressione, un’immagine non deve mai lasciarci: quella di chi, sessantaquattro anni fa, ha rinunciato alla propria individualità superando l’indifferenza e dedicando la propria vita all’azione sino al gesto estremo del sacrificio in armi.
La Libertà non è data una volta per tutte: ben lo sapevano i giovani ungheresi, bene dovremmo ricordarcelo noi. In un’epoca in cui il valore di un DPCM raffazzonato in una notte pare essere superiore ad ogni altra forma di legge e ad ogni diritto, forse i “ragazzi di Buda” una riflessione dovrebbero muovercela: perché – e lo vediamo di continuo – è facile contestare sui social, in piazza, sotto i Palazzi del potere, con la tranquillità più o meno certa di non incorrere in chissà quali pene. Tutt’al più una multa per aver infranto i distanziamenti. Meno facile, invece, è saper mettere in discussione la propria serenità individuale, foriera di menefreghismo e passività, per arrivare a costruire qualcosa di realmente scatenante.
Ma andrà fatto. O ci ritroveremo, quasi senza accorgercene, privati del futuro che sogniamo da quando ne abbiamo coscienza. E allora, “avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”.
Il vostro esempio ci guidi.

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