di Francesco di Giuseppe
Trenta anni fa, l’8 gennaio 1993, Giuseppe (detto Beppe) Alfano fu ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto, in Provincia di Messina, a colpi di arma da fuoco.
Era da solo, all’interno della sua automobile, non lontano dalla sua abitazione.
Gli spararono in bocca.
Aveva 47 anni. Era un insegnante. Un marito e padre di famiglia.
Alla morte seguì un lungo processo, tuttora non concluso, che condannò un boss locale, Giuseppe Gullotti, all'ergastolo per aver organizzato l'omicidio lasciando ancora ignoti i veri mandanti e le circostanze che provocarono l'ordine di morte nei suoi confronti.
Per passione svolgeva attività di cronaca e di inchiesta per le emittenti locali e come corrispondente del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Non era iscritto all’Ordine dei Giornalisti, ma fu iscritto ad honorem dopo la tragica morte, quando gli riconobbero il valore del suo impegno giornalistico e sociale.
Con i suoi articoli, Beppe Alfano squarciò la coltre di ipocrisia che copriva la presenza delle mafie in quella parte della provincia di Messina che in quegli anni viveva considerata una delle zone cosiddette “babbe” della Sicilia, cioè indenni dalla presenza e dalle infiltrazioni mafiose. Le sue inchieste esclusive fecero emergere storie di appalti irregolari, un traffico di stupefacenti e di armi, intrecci tra cosche, amministrazioni locali e massoneria.
Due anni fa con Magnete promuovemmo una diretta intitolata “Svegliati, è primavera”, durante la quale avemmo il piacere di ospitare Carolina Varchi e Francesco Alfano, che ci raccontò diversi aneddoti sul suo papà.
Un momento di grande commozione che aiutò anche a far luce su una storia, quella di Beppe Alfano, che solo negli ultimi anni ha iniziato a fare breccia. Lo stesso Carlo Lucarelli ha raccontato con passione ed emozione le sorti di quest’uomo, definendolo «un giornalista e un politico tutto d’un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull’ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi».
Ed è emersa, con questo, un’antimafia del tutto inedita dallo show che, in questi ultimi trent’anni, ha contraddistinto i cosiddetti “professionisti”. Quelli per i quali la lotta alla mafia si è rilevata per lo più recita a soggetto, passepartout per carriere politiche o giornalistiche, guarda caso a sinistra.
Quella di Alfano è invece stata e resta ancora figlia di quella tradizione marziale, silenziosa e impersonale che lega indissolubilmente il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto con Paolo Borsellino, il giudice che ha ingaggiato assieme a Giovanni Falcone la battaglia delle battaglie contro Cosa Nostra.
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