Di Matteo Malacrida
L’ingrato compito di dedicare parole e riflessioni alla memoria di Sergio Ramelli, anche quest’anno, grava sulle mie spalle. Scrivere qualcosa di nuovo, di originale, a quarantotto anni da quel 29 aprile maledetto che ha spento per l’ultima volta i suoi occhi non è facile. Facilissimo sarebbe scadere nella ripetizione del racconto di una vita, di cui altri – che quegli anni li hanno vissuti – meglio hanno detto, e più che a sufficienza.
Chiunque di noi abbia iniziato a percorrere la strada della militanza, lo ha fatto perché conosceva – o perché di lì a poco avrebbe conosciuto – la storia di Sergio. Abbiamo tutti un ricordo: una conferenza, una testimonianza, una marcia silenziosa verso il luogo del suo assassinio. Abbiamo tutti negli occhi la scritta che campeggia in quella via. “Ciao Sergio”.
In quella vernice rossa che colora il muro di via Paladini a Milano c’è il saluto di ognuno di noi. Perché, alla fine, è un po’ come se Sergio lo avessimo conosciuto tutti.
Ramelli è stato il simbolo della generazione di piombo, e con gli anni è diventato il simbolo di tutte le generazioni che ne hanno seguito idealmente il cammino.
Non perché fosse il migliore, il più intelligente, il più forte o il più eroico.
Ma perché, forse, era proprio il più normale. Portava i capelli lunghi, aveva degli amici, frequentava l’oratorio del suo quartiere. Seguiva il calcio, ci giocava, aveva una fidanzata.
E dedicava il suo tempo libero agli altri.
Alla Comunità.
All’Idea.
C’è un aneddoto che racconta spesso una sua amica, trattenendo a fatica l’emozione, anche oggi che siede tra i banchi del Governo. Qualche settimana prima di quel maledetto marzo 1975 era stato ammazzato a Roma Mikis Mantakas, uno studente greco militante del FUAN.
A Milano, ad attaccare i manifesti in suo ricordo, c’era anche Sergio.
Un mese dopo, il manifesto era lo stesso ma il nome era cambiato. “Chi sarà il prossimo?”, si chiedevano quei ragazzi mentre riempivano di “Sergio vive” le strade milanesi.
“Sergio vive”. Nel ricordo, certo.
Nella memoria che si onora con l’azione. Nella forza di mamma Anita che per tutta la sua vita ha salutato con le lacrime agli occhi le generazioni di ragazzi come lui, venuti a portargli un fiore sotto casa.
Nel sorriso e nelle lacrime di chi lo ha conosciuto in quegli anni così sbagliati.
Nella fiaccola che si accende e si ravviva ogni volta che il più piccolo di noi inizia ad intraprendere questo percorso.
Nelle parole delle istituzioni, che finalmente gli stanno dedicando il giusto tributo come martire non soltanto di un’Idea, ma di un popolo intero.
Martire dei ghettizzati, degli oppressi, dei minacciati.
Martire dei ragazzi normali, con uno sconfinato amore per l’Italia.
Ciao Sergio.
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