di Cesare Taddei
La prima volta in cui ho sentito parlare di Padania fu nel 2007.
Mio padre ha sempre adorato frequentare i personaggi più eccentrici dell’universo culturale alternativo e quel giorno mi chiese di accompagnarlo a una conferenza sulle origini celtiche dei lombardi, in una bettola sperduta nella campagna varesotta. Già mi aspettavo una serata tremenda ad ascoltare vecchie cariatidi sproloquiare su Iperborea, Tolkien e il druidismo, tanto alla fine andavano sempre lì a parare. Ma in quell’occasione particolare, volle presentarmi a tutti costi un suo amico, esperto di storia e identità cisalpina. Stavo provando a studiare e comprendere da poco le opere del professor Miglio perciò sapeva che quell’incontro avrebbe avuto un forte significato. Quel signore dallo sguardo furbo era Gilberto Oneto. Coltissimo ma soprattutto un uragano di ironia. Nonostante la sua dialettica mi appassionò subito dopo un paio d’ore divagò sull’indipendentismo e sulla necessità dei popoli del Nord di raccogliersi e separarsi dal Sud che rallentava il loro naturale percorso di crescita. Lo Stato della Padania come metafora per sintetizzare le anime nordiste. Si consideravano una minoranza oppressa alla pari degli scozzesi, dei baschi o dei bretoni senza però condividerne il loro precedente storico. Un’idea di cui ho sempre provato repulsione, soffrivo infatti a Pontida quando urlavano Italia ciao e bruciamo il tricolore, tant’è nei momenti più caldi dei comizi, evaporavo. Per i leghisti eppure era cosa seria e checché se ne dica in quel momento essere un militante di origini meridionali e con simpatie di destra non ti rendeva molto popolare, anzi.
Ciò nonostante già allora provavo una forte sensibilità culturale con tutte le realtà etnicolinguistiche in Italia e in Europa, ed ero convinto che il trait d’union per tutte loro fosse il federalismo piuttosto che la secessione. Perciò mi piaceva mantenere amicizie con alcuni esponenti dei movimenti indipendentisti europei. Sapevo di poter imparare tanto da loro. E fu la motivazione ideologica che mi spinse a partecipare a un laboratorio politico che poteva cambiare profondamente il mio Paese e io dovevo farne parte.
Destino ha voluto che confluissi nella galassia della destra radicale poco prima di assistere alla catastrofe politica che si sarebbe realizzata nel dicembre del 2013, il passaggio della segreteria da Maroni a Salvini. Posso dire in un certo senso di essermi salvato, conservo ancora l’idea romantica di un periodo che non esiste più. Lui e il suo cerchio magico hanno enormi responsabilità delle quali prima o poi dovranno pagarne il prezzo ai militanti, agli elettori e alla storia. Non si può cancellare con un timbro notarile 30 anni di lotte politiche e restare impuniti, soprattutto se la strategia di allargamento nazionale non era pianificata per costruire un progetto ad ampio respiro e raccogliere tutte le unicità territoriali del Paese ma semplicemente la giustificazione morale per legittimare un’oscena razzia di voti.
Il fulmineo successo elettorale infatti è stato solo il bluff di una gigantesca chimera politica, fondata sull’uso strategico delle key words e dei social per fare breccia nelle insoddisfazioni e frustrazioni recondite delle frange più deboli. Ma la storia non la fanno i sondaggi e i voti bensì le ideologie. Esse sono immortali agli uomini. Perché i più ortodossi fino a oggi sono stati così pavidi da non opporsi? In 9 anni non c’è stato nemmeno un sussulto. A parte all’inizio, quell’emorragia di militanti inorriditi dalla nazionalista, prontamente tamponata da fedelissime coorti di satrapi e lacchè. Affrontando il fenomeno con un occhio superficiale potremmo trovare analogie con la svolta di Fiuggi del Movimento Sociale nel 1995 tuttavia li separa una differenza sostanziale, nella Lega nessuno dei dirigenti ha e hai mai avuto la formazione culturale e l’eredità storica di chi come l’onorevole Pino Rauti si oppose strenuamente alla svolta liberal conservatrice del partito dando battaglia anziché accettare, parafrasando Erodoto, il γῆ καί ὕδωρ(terra e acqua). La maggior parte di loro infatti proviene da esperienze giovanili socialiste, liberali o peggio da formazioni marxiste. Eppure quel gigante di Umberto Bossi nonostante le sue precarie condizioni fisiche e l’età avanzata ci dimostra che l’anima di un guerriero supera il corpo e la sua straordinaria intelligenza politica di comprendere il momento giusto per colpire. Il Comitato del Nord era stato studiato e progettato da anni, in segreto. Bossi in tutta la sua storia politica si è sempre ammantato del ruolo di cospiratore romantico, un moderno carbonaro e ha aspettato pazientemente, in silenzio l’attimo per mordere, avvelenare il suo nemico approfittando della debacle alle elezioni di settembre e risvegliare le coscienze dei leghisti. Ideologicamente rappresenta il rigurgito di un Nord che necessita di riprendersi il proprio Lebensraum. Si tratta forse dell’impulso di sublimare le esigenze di una non nazione fondata sulle sue innumerevoli diversità culturali, storiche, biologiche e in particolare di un Nord orfano dei suoi riferimenti culturali e identitari, ciò infatti è stata una delle motivazioni più profonde della recente sconfitta: l’abbandono delle realtà locali, la mancanza del contatto diretto, quel necessario spirito umano di vivere i politici di persona, di condividere con loro momenti di quotidianità, per normalizzarli. Citando Majakovskij:” non rinchiuderti, Partito, nelle tue stanze, resta amico dei ragazzi di strada.” Mi piacerebbe pertanto che osservassimo con curiosità questo fenomeno, non come una lotta tra Guelfi e Ghibellini in seno a un alleato senza identità bensì come uno spunto per mettere in discussione anche noi stessi e la nostra visione ideologica di patria oggi e di Europa domani. E se il messaggio che i nostri amici ci stessero trasmettendo anche involontariamente fosse quello di abbracciare il tema delle autonomie, per costruire una nazione europea fondata su organismi macroregionali, legati da comunanze etnico-linguistiche a base federale e non più da Stati nazionali? Il sistema centralista ha fallito ed è retaggio di una realtà ottocentesca obsoleta che ha causato all’origine e non fa tutt’oggi che dilatare le disparità sociali ed economiche tra le due latitudini del Paese, costringendo in particolare il Meridione all’elemosina e all’emigrazione. Forse i tempi sono maturi per ridiscutere gli equilibri geopolitici, dimostrando che la costruzione di uno Stato continentale sia l’unica soluzione per salvare le nostre patrie dal loro sradicamento sociale, culturale e permettere loro di confrontarsi con un mondo che si muove in termini macro geografici. Partendo anche dal Sud come paradigma ispiratore. Risollevandolo attraverso un’opera di ristrutturazione amministrativa, di investimenti e una massiccia campagna di industrializzazione, per costruire posti di lavoro anziché farlo sopravvivere attraverso la sussistenza. Non si tratta di sovvertire l’Italia bensì ridefinire le priorità, le quali potrebbero non essere più le singole sovranità. Potrebbe pertanto una realtà sovranazionale sublimare tutte le anime europee e permettere loro di riconquistare un peso internazionale, salvandole dall’estinzione? In passato siamo stati avanguardia intellettuale grazie alla Jeune Europe e GRECE. Riappropriamoci del nostro ruolo sociale di pensatori politici, ci spetta per natura.
Comments