di Maria Vittoria Giglio Plutarco ne “Le vite parallele” sosteneva che Calpurnia, moglie di Giulio Cesare, il giorno prima del suo barbaro assassinio, avesse sognato la toga del condottiero insanguinata. Pensate allo spavento provato, poverina. Tant’è che, secondo altre fonti, avrebbe provato invano a fermare il consorte, aiutata dagli àuguri. Niente da fare
. La seduta senatoria, quel giorno, non si tenne nella Curia, dove, appunto, era locato il Senatus, bensì a qualche metro di distanza, più precisamente nell’aula pompeiana, poiché il luogo fisico dell’istituzione somma della “Res publica” aveva preso fuoco.
Gli sciacalli, i “tirapiedi”, gli ingordi di una gloria fugace, coloro che, a mio parere, si autocondannarono alla “damnatio memoriae”, non diedero adito di iniziare il discorso solito d’apertura, all’uomo del momento, a lui, che tanto avevano temuto e falsamente ossequiato, all’unico vero impudico rivoluzionario che aveva fatto sognare gli animi finanche dei suoi estimatori più silenti, durante l’attraversamento del Rubicone, ché lo pugnalarono ventitré volte.
È necessario tener vivo il ricordo delle “Idi di marzo”, è un debito sconfinato, volente o nolente, che continuiamo ad avere nei riguardi di un grande stratega e innovatore della vita politica di allora e attuale. Mutuando quella che presumibilmente sarebbe stata la tua ultima frase, pronunciata prima di cadere ai piedi della statua del tuo eccellente nemico in vita e in morte, diciamo: Quoque nos te semper memorabimus, Caesar!
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