Fabrizio De André, il canto libero ed antiborghese che esalta rivoluzioni, morte ed identità culturali raccontando le storie dimenticate, quelle degli ultimi. Tutto fuorché radical-chic.
di Giuseppe Ferrante
Ventiquattro anni fa, all’Istituto dei Tumori di Milano, si spense, o come avrebbe detto lui, è “evaporato in una nuvola rossa”, per raggiungere quell’angolo di Cielo riservato ai Pensatori liberi, il cantautore Fabrizio De André.
Nato da una famiglia di estrazione borghese, e con davanti a sé la carriera delineata di avvocato, non completa mai gli studi forensi e anzi, sin da giovanissimo, vaga nei locali della sua Genova per cercare l’occasione della vita che grazie alla “voce di un angelo” – quella di Mina nell’interpretazione de “La canzone di Marinella” – e, per fortuna di tutti, il suo percorso poetico e musicale è nel patrimonio culturale della Nazione.
Un percorso che comincia con la critica della vita borghese degli anni ’60, e l’esaltazione della rivoluzione sociale in “Storia di un impiegato” e di quella religiosa in “La buona novella”, con la figura di Gesù che, nudo di miracoli e resurrezione, rimane il figlio illegittimo di un falegname. Un percorso sempre caratterizzato dalla neanche troppo velata polemica verso quella morale sessuale che cominciava ad essere scardinata dai primi colpi di un ’68 a cui De André non è mai riuscito ad appartenere veramente. Perché anarchico? Chissà. Sicuramente perché autentico individualista dal canto libero che mai poteva cedere, come i Sessantottini, alle lusinghe della borghesia.
Il poco tempo a disposizione dell’uomo per conoscere il mondo, per conoscere sé stesso e per farsi ricordare, è l’ansia della sua intera vita tanto che scrive proprio “per paura: per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me”. Un uomo ossessionato dal tempo che scorre.
Vasta parte della produzione artistica di Faber non è in lingua italiana, ma nei dialetti d’Italia: dal genovese al napoletano, passando per quello sardo, quello veneziano… Uno studio maniacale delle diverse culture della Nazione, un’appartenenza viscerale alla nostra identità culturale perché, come dichiarato in una delle sue ultime interviste alla Rai, “noi tutti desideriamo conservare più strettamente le nostre radici culturali. […] Credo sia normale che ognuno di noi prima di sentirsi cittadino del mondo si senta napoletano, genovese”. In ogni suo album, Fabrizio De André analizza le storie dimenticate che, fino ad allora, nessuno voleva raccontare, trovando probabilmente proprio negli ultimi il simbolo della marcia contro i dogmi imposti dalla presunta “normalità”, perché “se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”.
Su De Andrè, ateo o profondo interprete della religiosità, giudice dell’umanità o suo umile conoscitore, è stato detto tutto ed il contrario di tutto, dipingendolo sia come alfiere buonista che come becero misantropo. Perché questo è il sudicio compito dei lestofanti del pensiero unico: tentare di imporre un’estrema unzione, un cocktail buonista agli uomini grandi della Storia. Ma solo dopo la loro scomparsa. Quando non possono più difendere la loro identità, senza poter avere diritto di replica.
E proprio quando questi giganti non sono più, il sacro rispetto dei pensatori liberi impone alle persone scevre da ogni pregiudizio il dovere di liberarli dai contenitori del buonismo dello spirito e dalle catene dall’intellighenzia radical chic.
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