Gabriele Sandri, il rumore del silenzio
- Redazione

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di Enrico Pellegrini
L’11 novembre 2007 un colpo d’arma da fuoco attraversò un’autostrada e un Paese intero.
Colpì un ragazzo, addormentato sul sedile di una Renault, e con lui l’idea stessa di giustizia.
Gabriele Sandri aveva ventisei anni.
Dj, appassionato di musica, romano, tifoso della Lazio.
Aveva davanti la vita, dietro una notte come tante.
Ma la vita finì in un’area di servizio, con un colpo partito dall’altra corsia, da una pistola di ordinanza, da un gesto che lo Stato non avrebbe mai dovuto compiere.
Quel colpo non ha ucciso soltanto un ragazzo.
Ha ucciso una fiducia.
Ha reso visibile l’invisibile: la distanza tra la legge e la giustizia, tra l’uomo e l’istituzione, tra la colpa e la verità.
Dopo quella mattina, l’Italia cercò parole.
Le cercò nei tribunali, nei notiziari, nei bar.
Le trovò nei cori, nei cimiteri, negli occhi del padre di Gabriele, che chiedeva solo una cosa: che la verità non fosse sepolta sotto la polvere dei faldoni.
Spaccarotella, il poliziotto che sparò, dirà che fu un colpo accidentale.
Ma ci sono gesti che non si cancellano con le versioni.
Ci sono colpi che non finiscono quando cade il corpo, ma continuano a sparare nella coscienza di un Paese.
Da allora è passato quasi un ventennio, e il tempo ha fatto il suo mestiere: coprire, attenuare, dimenticare.
Ci sono nomi che non si dissolvono.
Gabriele è uno di quelli.
Perché non rappresenta solo una vittima, ma una domanda che non smette di bruciare: può la giustizia restare giusta quando sbaglia?
Viviamo in un Paese che perdona l’oblio e condanna la memoria.
Che cambia canale quando la verità pesa troppo.
Eppure, ogni anno, l’11 novembre, il nome di Gabriele riemerge come una lama lucida, ricordandoci che dietro la cronaca c’è la coscienza, e che il silenzio non è mai innocente.
Nelle curve italiane la memoria non è un rituale: è resistenza.
Da anni, i tifosi di ogni colore onorano Gabriele non come simbolo di parte, ma come fratello.
Perché in quella morte si specchia chiunque abbia amato, sognato, gridato negli stadi come nelle piazze, convinto che la passione fosse ancora un modo per esistere.
Là dove la politica ha fallito, il popolo del calcio ha costruito un altare laico, un luogo in cui la parola giustizia non è più un concetto, ma un grido.
La famiglia Sandri non ha mai ceduto al rancore.
Ha scelto la via più difficile: quella della dignità.
Ha trasformato la rabbia in memoria e la memoria in presenza.
Perché ricordare non significa rinfacciare: significa custodire ciò che non può tornare.
E in questo, i Sandri hanno insegnato più di mille editoriali sulla legalità.
Hanno ricordato che lo Stato non si riscatta con le scuse, ma con la coscienza.
Ogni generazione ha i suoi nomi-simbolo.
Nomini che diventano specchi, che costringono a guardarci dentro.
Gabriele Sandri è uno di questi.
Dietro la sua morte c’è l’Italia di allora, ma anche quella di oggi: un Paese che ancora non sa difendere i propri innocenti, che chiede giustizia e ottiene procedure, che piange ma non cambia.
Ma c’è anche un’altra Italia, quella che non dimentica.
Quella che non accetta la versione comoda, che non si accontenta delle carte.
Un’Italia che sa che la giustizia non è un ingranaggio, ma una tensione morale.
Il tempo non risarcisce.
Scorre come un fiume sporco, ma la colpa resta sul fondo.
Lì, dove la legge finisce e comincia la coscienza, Gabriele continua a vivere.
Non come martire, ma come memoria.
Non come eroe, ma come domanda aperta: cosa significa oggi essere giusti?
Cosa significa, in un Paese libero, morire senza un perché?
Ricordare Gabriele non è un esercizio di nostalgia.
È un dovere politico nel senso più alto del termine.
È dire che lo Stato deve essere il primo a riconoscere i propri errori, se vuole essere credibile.
È chiedere che la divisa resti simbolo di ordine, non di arbitrio.
È ricordare che la verità non si prescrive, e che il silenzio non è mai un assorbente: è un veleno lento.
L’Italia ha sepolto troppe volte le proprie colpe sotto il rumore.
Ma ci sono nomi che restano.
Restano come ferite che non si rimarginano, come voci che continuano a chiedere ascolto.
Gabriele Sandri è una di quelle voci.
E ogni volta che il suo nome viene pronunciato, il Paese intero si misura con sé stesso.
Con la propria idea di giustizia.
Con la propria capacità di ricordare.
L’11 novembre non è solo l’anniversario di una morte.
È il giorno in cui lo Stato deve guardarsi allo specchio.
È il giorno in cui ognuno di noi dovrebbe chiedersi che valore ha la vita di un ragazzo, se può essere interrotta per errore, e poi dimenticata per abitudine.
Il tempo passa, ma la verità non invecchia.
Ogni anno, nello stesso giorno, la voce di Gabriele torna a farsi sentire.
Non come eco di rabbia, ma come promessa di giustizia.
E finché quella voce continuerà a risuonare, nessun colpo potrà mai mettere a tacere la coscienza.









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