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Il cuore pieno d’orgoglio, le scarpe piene di fango

Di Jacopo Tagliati


Mettere il cuore oltre all’ostacolo ed Essere esempio.

Due affermazioni che, nel nostro mondo, abbiamo sentito ripetere centinaia e centinaia di volte ma che, per un motivo o l’altro, non mi sentivo di aver messo in pratica appieno.

Fino al maggio scorso. Fino a quella maledetta notte che non dimenticherò mai. Quella notte nella quale mi svegliai di soprassalto perché il rumore della pioggia era così forte da far paura. Un rullo di tamburi infinito che suonava all’impazzata presagnedo il disastro.

I giorni a seguire ricordo che la devastazione era tale che quasi stentavo a crederci, quello che fino ad allora avevo solamente visto nei telegiornali era qui, nella città che mi ospitava da ormai due anni (Forlì), ed era terribilmente grande ed estesa. Allora decisi che la cosa migliore da fare sarebbe stata agire e, assieme ai miei colleghi di università, decidemmo che anche noi avremmo fatto la nostra parte per aiutare e saremmo andati un paio di giorno a spalare. O almeno così pensavo.

Via Oslavia e la signora Enrica: altre due cose, le quali rimarranno per sempre scolpite nella mia memoria in maniera indelebile. Quel venerdì 19 maggio ci mandarono proprio in questa via, dove l’acqua era appena defluita e aveva lasciato con sé uno strato di fango viscido, denso e terribilmente pesante da spalare. Appena arrivati ci dissero che c’era una casa da “liberare” perché ancora ostaggio degli effetti dell’alluvione. Al nostro arrivo ci accolse una signora di 70 anni, Enrica, la quale, quando ci vide scoppiò nel più spontaneo dei pianti ed esclamò “Ragazzi aiutatemi, sono due giorni che non viene nessuno!”. D’istinto l’abbracciai e le dissi che ci avremmo pensato noi, lei si doveva solo riposare. Inutile dirvi che chiedere ad un romagnolo di riposarsi e lasciare lavorare gli altri fu come parlare ad un muro…Enrica lavorò tutta la mattina assieme a noi e al pomeriggio ci offrì caffè e graditissima compagnia.  

Quel primo giorno fu devastante sia fisicamente che psicologicamente. A pranzo ricordo benissimo che, mentre aspettavo la piadina, mi veniva da piangere al sol pensiero di quell’inferno nel quale ero appena stato. Ributtai giù quelle lacrime e dissi a me stesso che c’era davvero “da essere forti” (come si suol dire) e andare avanti. Era la mia terra che me lo stava chiedendo.

Il giorno seguente, mentre al mattino spalavo il fango insieme a tanti nuovi amici venuti da tutta la regione e non solo, pensavo che al pomeriggio mi sarei fermato e riposato. Gli scarponi mi facevano un male allucinante, la schiena pure e la pioggia non smetteva di bagnarci dal mattino presto. Fu proprio lì, però, chepensai al nostro mondo, alle nostre idee e a tutto ciò che ci spinge ad agire in un mondo dove la “zona di comfort” è diventata la regola e, perciò, decisi che mi sarei fermato a lavorare anche al pomeriggio e in tutti i giorni seguenti.

La domenica tornò il sole e con sé portò anche tanti amici di Comunità vicine che vennero a Forlì per aiutare rinunciando ad un giorno di ferie per far sentire forte il loro appoggio. Da Rescaldina, da Como, da Varese e della provincia nord di Milano scesero Matteo e “i suoi” che sudarono assieme a noi e ci regalarono una bellissima giornata di lavoro. Tutto questo mentre anche gli altri ragazzi di GN erano sul fronte a spalare: Stefano assieme ai ragazzi di Bologna era attivo da più giorni nel ravennate assieme ai militanti locali, Nicholas era a Cesena dal primo giorno ad aiutare i suoi compaesani, Alessandro e “i ferraresi” stavano facendo lo stesso nelle zone attigue alla loro provincia e Davide mi aveva raggiunto da Parma per lavorare connoi. Ogni giorno tornavo a casa con il fisico a pezzi ma il cuore pieno di gioia nel vedere come la nostra Comunità si fosse mobilitata in massa per aiutare la Romagna ferita e come, tanti come me, stessero mettendo il cuore oltre all’ostacolo.

In tutto rimasi nel fango per nove giorni e, mentre al mattino e pomeriggio pala e scarponi erano i miei attrezzi da lavoro, dalle cinque in poi mi recavo quasi giornalmente al supermercato per acquistare cibo in scatola e oggetti per la pulizia personale da donare agli sfollati. Il tutto finanziato grazie alla generosità di tanti amici ed amiche che avevano deciso di aderire alla colletta solidale che mi ero inventato, assieme ai miei 3 colleghi dell’università, per aiutare chi una casa non l’aveva più ed era costretto a dormire su di una brandina all’interno di un palazzetto dello sport accanto ad altre centinaia di persone. I nostri sforzi portarono più di 2600 euro di cibo ai forlivesi meno fortunati di noi.

L’ultimo giorno di lavoro fu quello più significativo e più bello. Il perché è presto detto: la Comunità si ritrovò. Domenica 25 ci raggiunsero “nella mischia” anche Fabio, Chiara e Andrea. Fu un momento splendido perché ci ritrovammo tutti e, nonostante la situazione ancora tragica attorno a noi, riuscimmo a lavorare col sorriso e a strappare a nostra volta sorrisi ai tanti faentini che aiutammo quel giorno. Il tutto venne coronato dal “tira acqua” donato proprio da Gioventù Nazionale alla città di Faenza, la più colpita di tutta la Romagna dato che, per citarne una, in una strada l’acqua aveva raggiunto i nove metri e quindi il secondo piano delle abitazioni.

Insomma, quel giorno tornammo a casa tutti quanti “Stanchi, sporchi ma felici” (come cantava La Compagnia dell’Anello)perché sapevamo in cuor nostro di aver fatto la cosa giusta, sapevamo di aver messo il cuore oltre l’ostacolo, sapevamo di essere stati, nel nostro piccolo, d’esempio per un’intera generazione. Tutto ciò senza chiedere nulla in cambio, conoscendo tanti nuovi amici, ritrovando quelli di sempre e cercando di riportare il sorriso al popolo più genuino e generoso d’Italia: quello romagnolo.

(Scritto da un fiero emiliano che spera di avervi fatto riflettere nella lettura di questo articolo).

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