di Cesare Taddei Un vecchio amico alcuni mesi fa mi fece una domanda lì per lì disarmante: “Cosa accomuna un ragazzo di Stoccolma con uno di Catania e perché dovrebbero sentirsi europei?”
Intendeva soprattutto in base al loro contesto sociale di provenienza, alle opportunità e le esperienze personali. Mi fece perdere il sonno per molte notti. Alla fine trovai la risposta: Nulla, finché entrambi non smetteranno di considerarsi l’uno con l’altro un ἀλλότριος (allotrios) estraneo.
Nelle Storie, Erodoto spiegava già nel V secolo che gli Elleni (ovvero i 3 principali gruppi etnici: Dori, Ioni ed Eoli), consideravano tutti coloro che non parlavano greco non solo forestieri ma βάρβαρος (barbaros), primitivi, incivili. E tali erano come i Macedoni, i quali vivendo in territori impervi e in condizione di costante pericolo, a differenza del cittadino libero della polis mantenevano l’abitudine di girare armati nei loro villaggi.
La lingua poi costituiva le fondamenta della grecità, una solida consapevolezza culturale ed etnica, la quale travalicava i confini delle città-stato e fu la radice primordiale del nazionalismo che si rivelerà fondamentale per la vittoria greca durante le Guerre persiane e al tempo stesso fatale nei secoli avvenire.
Rinchiusi nel loro microcosmo, infatti, saranno inglobati prima da Alessandro Magno (ironia della sorte, re di Macedonia) e poi dai Romani. Entrambi consapevoli che la ricchezza delle loro società sarebbe stata assimilare i popoli conquistati e non solo sottometterli o cancellarli.
Con la nascita degli Stati nazionali, oltre 2000 anni dopo, le anime dei popoli europei si infiammarono di patriottismo. Ognuno rivendicava la propria supremazia sugli altri, soprattutto culturale non solo militare. Adriano Romualdi ne La Destra e la crisi del nazionalismo del 1973, scriveva: “La prospettiva nazionale escludeva l’Europa come unità di razza e cultura e frantumava la storia in blocchi ostili, capaci di educare grandi energie all’interno ma contenenti il germe di future guerre civili europee”. L’Italia imperiale infatti perse il secondo conflitto mondiale a causa dei nostri generali, ancorati a logiche ottocentesche e della classe politica fascista incapace di comprendere le reali dimensioni della guerra. Risposero al messaggio storico di quel momento con la propaganda. L’orizzonte però non era più il Carso e il Grappa, c’era da proteggere il mondo dal capitalismo e dal comunismo. La Germania si propose come guida per costruire un blocco europeo autosufficiente, tentò di svegliare le coscienze, di ispirare i giovani affinché partecipassero a una guerra non più di confine ma ideologica, imperiale e continentale.
Tanti risposero all’appello costituendo intere divisioni di volontari da ogni regione: Nordland, Wallonie, Charlemagne e Langermack le più valorose.
Era in gioco il destino dell’Europa e le sorti di questo conflitto avrebbero influenzato la nostra terra irrimediabilmente.
Se oggi non siamo più attori della geopolitica mondiale è a causa soprattutto dell’incapacità di incontrarci e guardarci come un grande popolo dalla comune origine iperborea, ambasciatore di un’eredità storica e culturale unica.
Dovremmo essere più vicini grazie all’Unione Europea, ma come possono gli interessi economici sostituire il sangue? Comunichiamo tra noi in un’unica lingua, ma è un’imposizione finanziaria e politica non un legame culturale. Così lontani, così vicini. La distinzione Nord e Sud come sola latitudine peraltro semplicizza un fenomeno che potremmo chiamare se sviluppato ” Magnetismo regionale”, ovvero la possibilità, per superare gradualmente il distaccamento tra i diversi popoli europei, di compattare intere macroregioni tra loro vicine non solo geograficamente ma accomunate da affinità linguistico- culturali.
La sfida dei giovani europei adesso è gettare le basi per costruire il Continente Nazione, ma siamo abbastanza coraggiosi da rinunciare all’Italietta, a smettere di ragionare per confini anche a costo di condividere la nostra sovranità? Il laboratorio è aperto a tutti. Cominciamo.
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