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Jan Palach - Storia di un Rivoluzionario

di Jacopo Tagliati


Lui amava la libertà. Lui amava studiare. Lui amava ragionare e perdersi nei meandri dei suoi pensieri. Lui amava la sua Patria. Il ragazzo in questione aveva solo vent’anni, una faccia fresca, occhi puliti e viveva a Praga nell’epoca in cui la capitale cecoslovacca attraversava uno dei suoi più bui periodi. Infatti, anche se la guerra era terminata, una coltre di nebbia liberticida aveva avvolto, inesorabile, l’Europa dell’est e la sua tradizione millenaria. Le scuole, un tempo luogo di apprendimento, crescita e divertimento per centinaia di giovani fanciulli si erano trasformate in non luoghi cosparsi di falci e martelli e nelle quali una “superiore dottrina” veniva inculcata ai più piccoli. Le università, dove le migliori menti si formavano e i più vivaci fermenti dell’ intelligenza ceca potevano emergere, erano divenute nient’altro che casermoni dove i ragazzi potevano studiare solo come al regime andava a genio e senza diritto di esprimersi liberamente. Con la guerra se ne era dunque andata anche la libertà. L’Urss la faceva dunque da padrona, ignara e inconsapevole della fierezza dei popoli che assoggettava con la sua fasulla “democrazia popolare”. Uno di questi fu proprio il popolo ceco, il quale, nella prima metà del 1968, (proprio mentre dall’altra parte del muro migliaia di giovani lottavano e mettevano a ferro e fuoco le città europee in nome di un’ideologia di cui probabilmente non conoscevano gli effetti) si ribellò e gridò tutto il suo disprezzo anti-sovietico dando vita ad una rivolta che passò alla storia come “Primavera di Praga”. Quell’avventura si interrupe, ahimè, prima del tempo sotto ai cingoli e ai colpi di cannone dei carri russi, ancora una volta intervenuti a difesa della tirannia e contro la libertà. Quell’esperienza aveva però smosso le coscienze di molti cechi e provocato un terremoto inaspettato nei movimenti illiberali (ed ovviamente comunisti) dell’Europa che aveva avuto la fortuna di rimanere dalla parte giusta del muro. Tra i molti cechi che avevano vissuto quei mesi con la speranza di liberazione e mettendo il cuore oltre l’ostacolo, vi era anche quel ragazzo cui parlavo all’inizio. Il suo nome era Jan e nella vita studiava filosofia all’Università di Praga. Insieme ai suoi amici si interessava di politica, di storia e aveva partecipato in prima persona alla mancata rivoluzione dell’anno precedente. Tutto ciò lo aveva colpito così in profondità che la mattina del 16 gennaio del 1969, esattamente cinquantaquattro anni fa, decise di compiere un gesto. Il gesto. Quello per il quale oggi noi lo ricordiamo e lo consideriamo un martire. Una tanica di benzina, un fiammifero e una profonda convinzione di star agendo in nome di un popolo oppresso che, attraverso il suo sacrifico, urlava il suo sdegno e la sua rabbia. Fu così che Jan si diede fuoco. I soccorsi e le cure dei giorni seguenti non servirono a nulla ed egli morì due giorni dopo fra lo sgomento popolare. A nulla valsero i tentativi di sminuire l’accaduto da parte del governo e, nei giorni a seguire, altri sette giovani (che Jan non conosceva) decisero di suicidarsi per dare continuità alla protesta del giovane boemo. Una storia cruda, dura da leggere e che lascia un gran senso di smarrimento. Ma ritengo fondamentale narrarla ogni anno con ancor più forza e volontà perché, pare scontato ma non lo è affatto,  non finisca nel dimenticatoio o si perda nella banalità di un post social con allegate un paio di righe che non trasmettono nessun sentimento e che non rendono onore ad un martire, un ragazzo dell’Europa dei popoli, un esempio di ardimento e di spirito di sacrificio. A te, caro Jan Palach, dedico le mie parole e il mio più sincero pensiero. Con la certezza assoluta che la mia Comunità si stringa nel tuo ricordo in maniera unanime, ti rivolgo il più semplice tra i saluti. A Dio, Jan!


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