di Piergiorgio Laguardia
Oggi di 66 anni fa, dopo una riunione con dei delegati sindacali a Lecco, moriva Peppino Di Vittorio, sindacalista e padre costituente grazie a cui, negli anni successivi alla sua morte, si è introdotta in Italia la contrattazione collettiva, ancora oggi uno dei più importanti istituti di democrazia sostanziale che pongono l’Italia in pole position nell’innovazione della disciplina giuslavoristica.
Peppino Di Vittorio è stato il segretario di una CGIL che difendeva coraggiosamente i diritti dei lavoratori, operai e braccianti, essendo stato lui stesso bracciante sfruttato in un latifondo.
Un particolare curioso raccontato da Giuseppe Pardini è che in quegli anni parte della sinistra nazionale missina che aveva dato vita al raggruppamento sociale repubblicano (Ernesto Massi, Concetto Pettinato amico di Montanelli, Giorgio Pini) invitava addirittura i propri iscritti ad aderire alla Cgil di Di Vittorio.
Ad accomunarli una sorta di ‘socialismo tricolore’, termine coniato dal compianto Giano Accame, e da un socialismo nazionale che voleva mobilitare le masse operaie e contadine.
E già qui si ravvisa uno dei punti di contatto tra l’ideologia divittoriana e quella della destra sociale.
Fatta la premessa che la contrattazione collettiva è eredità condivisa, in quegli anni Di Vittorio dovette svolgere una opera meticolosa per favorirne la sua gestazione: dagli incontri notturni sul treno con il capo degli industriali Angelo Costa per definirne le modalità ad una lotta serrata all’interno del suo stesso partito, il PCI, che con classismo e corporativismo ancora rifiutava idee innovative in nome di una antiquata e malsana dittatura del proletariato ( a cui si riconduce anche la proposta di formulazione di Togliatti dell’articolo uno della costituzione in sede di assemblea costituente).
Ma ad accomunarlo alla nostra area anche un’altra battaglia, combattuta coraggiosamente, contro i cinici e fedeli esecutori di Mosca della nomenclatura del PCI: anche Di Vittorio idealmente diceva “avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest” per citare una canzone dal sapore particolarmente identitario.
Lui che aveva subito la dittatura prima fascista in Italia (dovette infatti difendere con le armi la Casa Del Popolo aggredita dagli squadristi di Caradonna) e poi nazista in Francia non poteva non condannare quella comunista che, allo stesso modo, soffocava nel sangue chi rivendicava diritti e libertà.
Perché anche Di Vittorio, fin da quando era un bambino bracciante, si è battuto come i ragazzi di Buda con coraggio per l’altissimo ideale della libertà contro i soprusi e il dispotismo.
Per lui la patria aveva un significato e credeva nella sovranità territoriale ed economica in funzione della giustizia sociale. Poiché i rivoltosi ungheresi del 56 diedero la vita sia per le libertà civili sia per la giustizia sociale.
Ma le analogie con il mondo conservatore non finiscono qui: la sua Cerignola era anche la Cerignola di Pinuccio Tatarella, la cui famiglia ha sempre avuto molto stima di Di Vittorio e si può ben affermare come entrambi, nei rispettivi campi, siano stati dei grandi innovatori capaci di guardare oltre.
Un altro punto di contatto tra la destra sociale e Di Vittorio è il comunitarismo: la comunità non è il risultato di una somma di interessi individuali e di individualismi sfrenati ma un qualcosa di molto più profondo. Comunità significa condividere radici, identità, partecipazione agli utili, equità e vincere insieme le sfide epocali.
Oggi commemoriamo Di Vittorio ma per dare onore alla sua commemorazione dobbiamo difendere ed estendere sempre di più la contrattazione collettiva, un vero ed efficace rimedio contro il lavoro povero.
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