di Giuseppe Ferrante
Lo scorso 16 gennaio, dopo quasi trent’anni di latitanza, il boss Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai Carabinieri del ROS con la collaborazione del GIS, mentre si trovava nella clinica privata La Maddalena, a Palermo, nel quartiere San Lorenzo.
Il super latitante era in procinto di effettuare, sotto il falso nome di Andrea Bonafede, una seduta di chemioterapia.
Latitante dall’estate del 1993, condannato all’ergastolo per decide di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, e per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino e per gli attentati del ’93 di Milano, Firenze e Roma.
La cattura di Messina Denaro conclude anni ed anni di indagini delicatissime, portate avanti grazie al “metodo Dalla Chiesa” cioè senza pentiti ma grazie alla raccolta di una quantità immane di dati informativi dei tanti reparti dei Carabinieri: sulla strada, attraverso intercettazioni telefoniche, banche dati di Stato ed enti. Ma soprattutto, mette la parola fine ad una delle pagine italiane più oscure di sempre, quella delle stragi di mafia.
Un avvenimento che diventa prova tangibile che la mafia si può battere. Un avvenimento da dedicare con commozione a tutte le vittime di mafia. Un avvenimento da scolpire con orgoglio nella Storia della Nazione.
Eppure, polemiche e ombre restano sullo sfondo di quello che è – e resterà – con buona pace di cospirazionisti e “nemici del bene”, un’inequivocabile vittoria dello Stato.
Polemiche ed ombre che il Presidente Giorgia Meloni non lascia lì, mandando un messaggio molto chiaro a chi ha tentato di ridimensionare l’arresto del capomafia trapanese e di gettare il seme del sospetto sull’azione di Istituzioni e Forze dell’Ordine nella lotta al sistema delle mafie: “quando si tenta di sminuire il lavoro dei tanti uomini e donne che ogni giorno, con coraggio e spirito di abnegazione, dedicano la loro vita alla lotta alla criminalità organizzata, si infanga anche la memoria di eroi silenziosi come Filippo”. Il ricordo è per Filippo Salvi, maresciallo dei Carabinieri morto durante un’indagine proprio per cercare di arrivare al boss.
Si è fatto arrestare, è malato e vuole farsi curare dallo Stato, lo cercavano in tutto il mondo ed era a casa sua, tutti sapevano che era a Palermo, 30 anni sono troppi… Sono solo alcune delle affermazioni che si leggono in questi giorni, spesso provenienti da personaggi “autorevoli” di quell’antimafia che crea profitto ma che, evidentemente, è in malafede e non vuole i mafiosi dietro le sbarre. Addirittura, si legge ancora di chi insinua la possibile insistenza di una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. E allora viene naturale chiedersi: perché l’Italia si autoflagella in questo modo?
Le chiacchiere stanno a zero.
Oggi c’è un Governo che, come primo provvedimento in assoluto, ha difeso il carcere ostativo.
Per la gente comune, sapere che Matteo Messina Denaro è assicurato alla giustizia di Stato, rappresenta un sollievo e consente agli occhi un lampo di orgoglio.
Non siamo uno Stato di cartone. Saremo anche una potenza minore sul palcoscenico globale, ma la civiltà e la maturità mostrate nella lotta al crimine organizzato il mondo intero se le sogna.
Negli Stati Uniti, dove per l’arresto del figlio del Chapo si versano fiumi di sangue, se la sognano professionalità e pulizia simili. Il contrario dell'armonia di sentimenti positivi che attraversa la nostra Nazione da Sud a Nord e getta palate di profumata colla utili a tenere insieme la Repubblica.
Si è estinta la razza dei Corleonesi di cui Messina Denaro era l’ultimo reggente. Dopo il 16 gennaio, Cosa Nostra si è ritrovata con la testa mozzata e tornerà al suo passato di estorsioni ed appalti. Ormai è una pallida copia di quella che dominava la Sicilia e l’Italia.
Un segnale chiaro ai capi di ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita. Vi prenderemo. Perché lo Stato vince sempre.
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