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La Repubblica degli impuniti: per il rogo di Primavalle, solo morte e tanta rabbia

di Matteo Malacrida


Quarantasette anni fa, l’incendio che uccise i fratelli Mattei e per cui nessuno ha mai pagato: “nomi e cognomi” di chi ha ucciso, coperto, aiutato. Perché ricordare è un dovere, ma ricordarlo agli altri è una missione.

Roma, 16 aprile 1973, quartiere popolare di Primavalle.

La “Brigata Tanas”, legata a Potere Operaio e composta da Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo raggiunge a notte fonda la palazzina in cui si trova, al terzo piano, l’appartamento della famiglia Mattei.

Con sua moglie Anna Maria, il netturbino Mario ha tirato su famiglia in queste case popolari. Il suo sorriso si specchia in quello dei sei amati figli: Virgilio di ventidue anni, Silvia di diciannove, Lucia di quindici, Antonella di nove, Stefano di otto e Giampaolo, il più piccolo, di tre. È, a tutti gli effetti, una famiglia “proletaria”.

Eppure, ai tre militanti comunisti, non importa. Già, perché Mario ha la colpa, profondissima, di essere il segretario della sezione “Giarabub” del Movimento Sociale Italiano, presidio della destra sociale nel quartiere romano. E a chi, rivendicando nelle piazze la lotta armata, cantava “Nessuno o tutti, o tutto o niente, / è solo insieme che dobbiamo lottare…”, questo non poteva certo andare giù.

Ce li immaginiamo, i tre terroristi, preparare la benzina e l’innesco con i quali di lì a poco avrebbero compiuto uno degli attentati più vili e terribili di quegli “anni di piombo”: ce li immaginiamo nei loro volti tetri, solcati dal ghigno di chi ha nella violenza e nell’odio la sola forma di scontro politico, a credersi rivoluzionari nello spargere la benzina fuori la porta dell’appartamento dei Mattei, con la famiglia che dormiva. D’altronde, neppure il coraggio è mai stata virtù apprezzata, da quelle parti.

L’innesco genera lo scoppio, l’incendio divampa in tutto l’appartamento: le fiamme non raggiungono Mario, che si ustiona ma riesce a gettarsi dal balcone per poi prendere al volo la figlia Lucia, e neppure raggiungono Anna Maria, che con Antonella e Giampaolo fuggono dalla porta principale. A Silvia andrà peggio: durante il salto disperato, batte la testa e la schiena nella caduta e si schianta a terra riportando la frattura di due costole e tre vertebre.

Mentre i quattro sono vivi per miracolo, è sopraggiunta una folla, che ancora non ha capito quello che è successo: dalle finestre, a spezzare la notte romana ci sono le urla disperate di Virgilio, il figlio maggiore, militante come il padre nel Movimento Sociale Italiano. È rimasto intrappolato nell'appartamento insieme al fratellino Stefano.

Virgilio prova, con tutte le sue forze, ad aggrapparsi col fratellino al davanzale, nella speranza che qualcuno al fine li riesca a salvare. Ma le fiamme ed il fumo sono più forti: Virgilio cede, perde le forze, scivola indietro con Stefano. Li ritroveranno i Vigili del Fuoco: carbonizzati e abbracciati.

Sul selciato, tra la disperazione del quartiere, una nota rivendica l’attentato: “Brigata Tanas – guerra di classe – Morte ai fascisti – la sede del MSI – Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria”. Una sentenza di morte che condanna, senza possibilità d’appello, degli innocenti. Che distrugge una famiglia. E che lascia l’ennesima lacerazione insanabile nel corpo dell’Italia martoriata dalla violenza rossa.

Da lì, perquisizioni ed interrogatori portano in due giorni ai mandati d’arresto per i tre terroristi: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Gli ultimi due sono già fuggiti, latitanti in Svizzera, e viene arrestato soltanto Lollo. L’inchiesta, che si chiude in un mese con l’accusa di strage, viene però sistematicamente ostacolata: le voci di Potere Operaio parlano di un “incendio a porte chiuse”, sostenendo la tesi assurda e vergognosa che si tratti di un “oscuro episodio nato e sviluppatosi nel vermicaio della sezione fascista del quartiere”. A queste voci fa da sostegno il principale quotidiano romano, “Il Messaggero” di Ferdinando e Alessandro Perrone, padre e zio di una militante di Potere Operaio, ma anche il senatore comunista Umberto Terracini, il deputato socialista Riccardo Lombardi, lo scrittore Alberto Moravia e Dario Fo, marito di quella Franca Rame che in quei giorni aveva di suo pugno scritto ad Achille Lollo che presto avrebbe ricevuto “denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo”. Fuori dal Tribunale di Roma, poi ad ogni udienza ci sono manifestazioni della estrema sinistra: il 28 febbraio 1975, durante una di queste, verrà freddato lo studente greco Mikis Mantakas, militante del FUAN.


È il solito teatro che è stato inscenato a lungo in quegli anni, quando a cadere sotto i colpi della violenza antifascista erano militanti e simpatizzanti del MSI e del Fronte della Gioventù. È, crediamo, la più forte evidenza dell’orrore su cui questa Repubblica, presuntamente democratica, è stata costruita.

I risultati di questa connivenza tra Istituzioni e terroristi antifascisti sono nel 1975 un’assoluzione per insufficienza di prove, a cui fa seguito però un appello che porta nel 1984 alla condanna di diciotto anni (nonostante fosse stato chiesto l’ergastolo per strage) per i tre terroristi. In attesa del processo d’appello, Lollo – l’unico che era stato arrestato, poiché Grillo e Clavo erano già latitanti – viene rilasciato e, con l’aiuto economico di Dario Fo e Franca Rame che già in quegli anni venivano portati su un palmo di mano come preziosi intellettuali dal regime, può fuggire in Brasile. A ottobre del 1987 la Cassazione conferma la sentenza di condanna: sono passati quattordici anni e nessuno dei tre, ormai latitanti e protetti da un’ampia rete di sostegno internazionale, viene arrestato. La condanna verrà infine dichiarata prescritta nel 2003 su istanza dell’avvocato Francesco Romeo, difensore di Clavo.

Quattro feriti gravi, due morti ed una scia di sangue che arriva fino a Mantakas, e nessun punito. Né i tre già condannati, né Paolo Gaeta, Diana Perrone ed Elisabetta Lecco, che anche loro avevano partecipato, per successiva ammissione di Lollo, all’attentato.

Chi ha incendiato, chi ha coperto, chi ha aiutato: tutti impuniti e alcuni, ancora oggi, liberi di insozzare la nostra Italia. Ci avviciniamo al 25 aprile, che per qualcuno è festa di liberazione: quando pensiamo alle radici di questa Repubblica, ricordiamo i corpi carbonizzati di Virgilio e Stefano. Ricordiamo chi in questi decenni ha ignorato, dimenticato, insabbiato. E forse capiremo che questa Italia, in verità, certi suoi figli non li ha mai meritati.


 
 
 

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