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Lezioni di pace?

di Ilaria Telesca


“A noi, ci hanno insegnato tutto gli americani.


Se non c'erano gli americani, a quest'ora noi eravamo europei!


Vecchi pesanti, sempre pensierosi, con gli abiti grigi e i taxi ancora neri.


Non c'è popolo che sia pieno di spunti nuovi come gli americani.


E generosi, gli americani non prendono mai, danno, danno.


Non c'è popolo più buono degli americani.



Gli americani hanno le idee chiare sui buoni e sui cattivi, chiarissime!


Non per teoria, per esperienza, i buoni sono loro


E ti regalano scatole di sigari, cassette di wiskey,


Navi, sapone, libertà, computer, abiti usati, squali!”


Così Gaber, con attuale sarcasmo, ci descriveva la società che più di tutte, nell’arco di un secolo, si è distinta per il suo egoistico altruismo: un ossimoro che si manifesta ogni qualvolta la bandiera a stelle e strisce decida di ristabilire la “pace” in territori atrocemente segnati dalla guerra - quest’ultima, oltretutto, spesso sovvenzionata dagli stessi paladini che pretendono e/o ottengono il Nobel per la Pace (ultimo tra tutti, il caro vecchio Obama).


Le vicende politiche delle ultime ore rimarranno nella storia.

Israele e Hamas hanno “accettato” un piano di pace proposto, udite udite, dal Presidente degli Stati Uniti d’America.

O meglio, ne hanno accettato la fase iniziale: il ritiro parziale di Israele da Gaza e un primo scambio di ostaggi.


I 20 punti di Trump, com’era ovvio che fosse, non convincono i due interlocutori, dal momento che nessuna delle due parti ne esce “vincitrice”.

D’altronde è il gioco della mediazione, in cui uno scopo comune costringe l’uno a ritirare qualche sua richiesta per venire incontro all’altro e viceversa.

Ma dopo decenni di guerra spietata, di genocidio e reazione, può mai esserci uno scopo comune?


Forse dobbiamo parlare di scopo umanitario e sociale. Perché di certo una pace - speriamo non temporanea - gioverà a chi a causa di questa guerra ha perso tutto, a chi tornerà nelle proprie città, trovando davanti a sé un deserto di macerie e polvere.

Il popolo della Palestina, che anche dopo la decisione presa dalle due parti ha continuato a subire atrocità e bombardamenti, dovrà fare i conti con la realizzazione di ciò che è accaduto e con la ripartenza da zero. Nonostante questo, per lo meno, potrà non preoccuparsi della (fin ad oggi troppo fragile e dubbia) sopravvivenza.


Fatta questa doverosa precisazione secondo la quale, credo, sia nell’interesse di tutti che il popolo di Gaza possa tirare anche solo un piccolo respiro di sollievo, passiamo al lato politico del caso.

In questi due anni, da quel famoso 7 ottobre, la questione palestinese è stata trattata esclusivamente dal punto di vista umanitario, senza considerare gli interessi strategici in Medio Oriente.

Le stesse manifestazioni di piazza delle ultime settimane hanno incentrato la questione sulla tragedia, sulla fame e sulla deumanizzazione di un popolo.

Non è sbagliato, ma è una narrazione decisamente incompleta.


La geopolitica mediorientale è estremamente complessa, perciò ne parleremo in articoli dedicati, per evitare di banalizzarla.

Qui ci concentriamo su un punto fondamentale della questione: l’incessante ed emblematica necessità di egemonia degli USA.

Israele stava cacciando la testa fuori dal sacco? Netanyahu non fa più comodo? L’opinione pubblica “sfavorevole” potrebbe favorire un’alleanza araba a discapito della superpotenza occidentale?

Certamente la situazione era sfuggita di mano, sui social media, nelle coscienze ma, soprattutto, sui tavoli delle decisioni.

Mediare la pace tra due fazioni eternamente antagoniste sembra essere la soluzione perfetta per ripristinare la stabilità (sempre secondo gli americani) dell’opinione pubblica e della geopolitica mondiale.


E allora, alea iacta est.

Il principale “esportatore di democrazia” mondiale scaglia la sua freccia e si intesta una vittoria storica.

E no, questa freccia non sono i miliardi di dollari di armi inviati all’esercito israeliano negli ultimi due anni, ma l’azione che in un attimo ha silenziato tutti quelli che fino a due giorni prima sbraitavano contro l’Occidente.


Non lo ha fatto per il popolo della Palestina, né per la sua autodeterminazione, e la labile consistenza dei 20 punti lo dimostra. Lo ha fatto per meri interessi geopolitici. Ma lo ha fatto.


C’è qualcuno, invece, che è rimasto in silenzio, che per i due conflitti principali del momento (israelo-palestinese e russo-ucraino) ha attuato la solita strategia del “due pesi e due misure”, che ha avallato per anni un genocidio e che, solo ultimamente, ha cercato di infliggere piccole sanzioni allo Stato di Israele.

Quel qualcuno, ovviamente, è l’Europa.


Quell’Europa che ha dato i natali alla geopolitica e che ora, invece, occupa un ruolo marginale, causato dalla sua inerzia o addirittura dalla sua estraneità rispetto alle risoluzioni diplomatico-strategiche.


A decisioni prese, tutti vorranno salire sul carro della vittoria e della ricostruzione - politica ma anche territoriale, essendo Gaza un cumulo di macerie e necessitando, quindi, di un Piano Marshall del terzo millennio.


E forse bisogna salirci, non per giovarne economicamente come solita priorità di un organismo bancario e burocratico che ormai rappresentiamo da decenni, ma per evitare che si avveri il tipico epilogo e che si rimanga a guardare l’ennesimo popolo che rinuncia alla propria autodeterminazione in nome di una religione - né islamica né ebraica - devota al solo Dio del denaro e della sopraffazione.


Questo nostro accontentarci di arrivare sempre “secondi” descrive un mondo non più eurocentrico, che ci convoca per avere supporto e che si fa pregare per farci dire la nostra.

Le scelte geopolitiche si prendono su scrivanie diverse da quelle europee, nonostante la nostra storia sia l’unica fondata sui valori e sulle idee, ma anche sull’arte della guerra e sul rispetto delle identità.


Il genocidio ha toccato le nostre coscienze e la nostra rabbia.

Il piano di pace, le prospettive geopolitiche e sociali, toccheranno il desiderio di riconquista della nostra sovranità?


Oggi più che mai dovremmo farci sentire, dovremmo focalizzarci sul futuro della nostra Europa e di tutte le situazioni che la circondano. Dovremmo riappropriarci della centralità che ci appartiene.

Sempre oggi, invece, le piazze sono vuote e le idee rimangono silenziose.


Restiamo svegli.


ree

 
 
 

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