24 aprile 1915, Talaat Pasha, allora Ministro dell'Interno dell'Impero Ottomano, ordinò la detenzione di massa dell'élite armena, in un'operazione che aveva lo scopo di privare il popolo armeno di riferimenti morali, per poi sottometterlo. Deportati, arrestati, e poi sottoposti a molteplici torture, i prigionieri erano condotti verso la loro fine attraverso marce della morte, (simili a quelle successivamente adoperate dai nazisti) lungo il deserto siriano, da gruppi di Giovani Turchi, i principali esecutori materiali del massacro.
Si stima che questo calvario, messo in atto secondo una pianificazione scientifica di eliminazione del popolo armeno, costò la vita a più di un milione di persone, e incrementò l'emigrazione della popolazione verso mete come Stati Uniti e Francia, fenomeno noto come Diaspora Armena.
Al di là dei moventi politici che portarono al massacro, è bene considerare tra i fattori principali l'odio verso il Cristianesimo, fondamentale caratteristica del popolo armeno.
Nell'Impero Ottomano infatti, si estendeva la metastasi del fanatismo religioso di matrice islamica, di cui I Giovani Turchi (movimento politico estremista) erano una raffigurazione emblematica.
Tra le vittime, molti furono coloro i quali vollero rimanere fedeli a Cristo e rifiutarono la conversione forzata all'Islam.
Il termine “genocidio”, seppur riconosciuto formalmente dal mondo occidentale, viene messo in discussione dal revisionismo storico che spesso si diffonde indisturbato, soprattutto tra i canali musulmani, sempre più numerosi in un’Europa che appare sorda. E intanto il popolo armeno, negli anni dimenticato e silenziato, sembra non avere pace, ancora oggi, come insegna la recentissima cronaca.
Sono trascorsi circa sette mesi da quando i canali ufficiali dell'informazione hanno riportato all'attenzione dell’occidente il caso Artsakh, la repubblica autoproclamata tra l’Armenia e l’Azerbaigian, storico punto di conflitto tra i due stati che ne rivendicano la sovranità.
Un ricordo che oggi sembra sempre più remoto e sfumato.
Artsakh o Dağlıq Qarabağ, questo è il dilemma.
La tensione tra le parti si riflette anche nella denominazione del territorio. Il primo termine, di origine armena, è di etimologia incerta, il secondo è il nome ufficiale presso gli azeri e significa letteralmente “giardino nero montuoso”. Il Nagorno Karabakh, nome più popolare per i media occidentali, poiché quello prediletto dalle fonti inglesi, ospita per la maggior parte una popolazione di origine armena, che ne conserva ancora oggi una marcata identità culturale cristiana.
Tuttavia l’attacco militare azero dello scorso anno ha ridisegnato il profilo antropologico della regione, dovuto all’esodo di più di centomila persone di etnia armena, alle quali era stato interdetto in precedenza il corridoio di Lachin, cordone ombelicale con la Madrepatria, fonte appunto di beni di prima necessità. Non bastano le preoccupazioni degli osservatori internazionali che denunciano un tentativo di pulizia etnica della regione. La condizione della regione non sembra essere tra le priorità dell'opinione pubblica europea, troppo impegnata in altri conflitti internazionali.
L'instabilità politica del territorio avrebbe da tempo dovuto allertare la comunità internazionale, che invece si è mostrata sprovvista di iniziativa e strumenti politici per intervenire nel conflitto.
La genesi della disputa risale a tempi antichissimi.
Le fonti antiche identificavano il territorio come parte dell'Armenia e conteso con l’Albania caucasica. Con le invasioni arabe si rafforzò il carattere armeno del territorio, nacque il principato di Khachen. Successivamente però arrivarono gli antenati degli azeri dal centro dell'Asia, principalmente pastori di origine turca, che ebbero riscontro della potenzialità strategica del territorio. Fu allora che venne deposto il seme della storica contesa.
Dopo secoli di drammatiche vicissitudini, nel 1813 fu proclamato parte dell'Impero russo.
Dopo la rivoluzione russa del 1917, il Nagorno-Karabakh entrò a far parte della cosiddetta Federazione Transcaucasica. L'Azerbaigian, infine, ottenne il controllo della regione nel 1921, su decisione di Stalin.
Il crollo dell'Unione Sovietica negli anni '90 riportò alla ribalta la disputa territoriale del Nagorno-Karabakh. La maggioranza armena, con il sostegno logistico del vicino Stato armeno, iniziò a rivendicare l'indipendenza dall'Azerbaigian e la riunificazione dell'Armenia. La mancanza di un accordo e la crescente tensione tra le due parti portarono allo scoppio della prima guerra del Nagorno-Karabakh, che dal 1992 al 1994 causò più di 30.000 vittime e gravi danni alla regione. Al termine della guerra, con il cessate il fuoco, la maggioranza armena nella regione proclamò la nascita della Repubblica dell'Artsakh, tuttavia questa dichiarazione non fu mai formalmente riconosciuta dalla comunità internazionale. D'altra parte, il Naxçıvan, terra ubicata tra Armenia, Iran e Turchia, dichiarò l'indipendenza, malgrado la parte armena, e venne annesso alla repubblica di Azerbaigian, divenendone un’exclave.
Di fatto, l'Azerbaigian ha continuato a rivendicare anche l'Artsakh, soprattutto attraverso la propaganda interna, che vede non soltanto il Nagorno-Karabakh, ma anche l'Armenia, come parte di un grande stato azero e gli armeni come un ostacolo a tale progetto. L'Azerbaigian è una potenza in continua crescita, complici le risorse energetiche, il cui profitto ha consentito al presidente Aliyev un consistente riarmo.
Nel settembre 2020, ha attaccato la regione, dando inizio a un nuovo capitolo di violenza e instabilità. È riuscito a occupare la parte meridionale del Nagorno-Karabakh, che era sotto il controllo armeno. Con la mediazione della Russia, nel novembre 2020, è stata proclamata una tregua precaria.
A esacerbare la tensione nell'area è il coinvolgimento di potenze straniere, in primis la già citata Russia, storico alleato dell'Armenia, salvo poi infiacchire il suo supporto a causa delle recenti politiche filo americane di quest'ultima, a cui aveva fornito ausilio militare e diplomatico.
La Turchia ha sostenuto attivamente l'Azerbaigian, incluso attraverso l'invio di mercenari stranieri nella regione. Mentre l’Iran, che teme il riemergere di un sentimento nazionalista azero che possa coinvolgere il cosiddetto “Azerbaigian iraniano”, sostiene la cristiana Armenia, con il fine di scongiurare tensioni interne. E Israele, conclamato nemico dell'Iran, si trova a sostenere l'Azerbaigian proprio in chiave anti iraniana. Tutti questi fattori hanno reso la regione un campo di gioco per interessi più ampi.
E nonostante i timori per una potenziale escalation, poi culminata con i fatti del settembre scorso, e una situazione ancora troppo incerta, dall'occidente non è giunta una voce forte di presa di posizione nel conflitto. Spicca soltanto una risoluzione nel 5 ottobre 2023, in cui in Parlamento Europeo chiedeva sanzioni contro i responsabili dell'invasione.
Il risultato più nefasto di questa offensiva è stata la dissoluzione della Repubblica di Artsakh dal 1 gennaio 2024, che ha segnato una svolta tragica nella storia della regione, con conseguenze che si riflettono ben oltre i suoi confini.
L’Artsakh costituisce il bersaglio che il mondo turcoide e islamista ha scelto anche perché è un simbolo dietro cui si celano secoli di cultura e tradizioni cristiane, portate avanti con orgoglio e sacrificio da un popolo, quello armeno, che sopravvive in uno dei territori più martoriati del pianeta, il Caucaso.
Ignorare l'Artsakh significa permettere un'altra volta, l'ennesima, che l'Armenia sia umiliata.
Nel corso degli attacchi diverse chiese sono state distrutte, e i monasteri secolari ceduti alla furia degli azeri.
Inoltre sono sparse nel territorio migliaia di khachkar, una peculiarità dell’arte armena medievale. Si tratta di steli con croci scolpite sulla pietra, finemente decorate, dichiarate Patrimonio UNESCO, e ora a rischio distruzione.
Gli esuli hanno dato fuoco alle loro case, nel tentativo di salvarle dalla profanazione del nemico.
Ogni anno, a Erevan, la capitale dell'Armenia, intere masse si recano presso Memoriale del genocidio, il Tsitsernakaberd, per deporre fiori ai piedi della fiamma eterna. Il luogo ospita anche un museo in cui sono esposte le fotografie di Wegner sulle vittime del genocidio, oggi affiancate suggestivamente a quelle degli esuli dell'Artsakh. Esuli che quest'anno celebranno l'anniversario nella Madrepatria, che ha accolto tutti, nonostante le enormi difficoltà economiche e logistiche.
Testimonianza di un popolo povero e vessato, tenuto unito dalla fierezza dell'identità.
L’Armenia, prima nazione al mondo ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale, rappresenta ancora oggi un baluardo di valori cristiani ed europei.
La porta d’Europa che l’Europa sembra spiacevolmente voler dimenticare.
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