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Nell'Olimpo degli Dei

di Matteo Malacrida


“Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.” - P. P. P.

In meno di un mese, il Fato ha strappato alla vita terrena tre Uomini che hanno incarnato, in epoche diverse, quel senso sacro e sacrale del giuoco del calcio evocato da Pier Paolo Pasolini. Storie diverse e destini incrociati, quelli di Edson Arantes do Nascimento (per brevità chiamato Pelè), di Gianluca Vialli e di Siniša Mihajlović. Chi pensa che il calcio sia “solo un gioco”, con undici uomini che ne rincorrono altrettanti cercando di lanciare una sfera in una rete, della vita ha capito più o meno zero.

Almeno in questa parte del Mondo, il calcio è quanto di più simile ad una religione. Non soltanto perché, a sentir parlare i tifosi, non è raro trovare chi ti racconta la sua fede calcistica quasi con le lacrime agli occhi. Ma perché, come ogni religione che si rispetti, ha i suoi riti, i suoi calendari e, sopra a tutti i fedeli e i praticanti, i suoi profeti. Se il calcio è una religione, Pelè è stato il più grande profeta dell’Antico Testamento. Quello fatto di partite giocate nelle enormi cattedrali del futebol brasileiro sotto gli occhi dei bambini delle favelas. La sua epopea, tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima degli anni Settanta, è quella di chi ha radunato e trascinato con sé un intero popolo sul tetto del mondo. Per tre volte, unico Eroe nella storia. Ha rivoluzionato il gioco e, forse più di tutti (prima di Maradona, tanto per dirne uno), lo ha trasformato – appunto – in una religione. Nel misticismo del drible de vaca, realizzando per vent’anni quell’unità tra Eroe e Popolo che lo ha consegnato alla Storia. E che gli ha garantito il tributo di una Nazione intera, ancora cinquant’anni dopo la fine delle sue giocate.

“L'onore spetta all'uomo nell'arena. L'uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L'uomo che lotta con coraggio, che sbaglia sapendo che non c'è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e di mancanze.” - Theodore Roosevelt E poi, del calcio c’è anche l’altro lato. Al culto-quasi-misterico dei profeti brasiliani segue, segnando definitivamente il passaggio al Nuovo Testamento, la classe, la grinta e il cuore degli europei. La Betlemme di questa nuova religione, almeno tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, è senza dubbio l’Italia, che dà i natali a tanti Eroi e altrettanti ne accoglie. Gianluca arriva da Cremona e il Verbo inizia a diffonderlo con addosso la sua maglia grigiorossa. Dopo tre anni di sportellate tra C1 e B, guida le Tigri nella massima Serie da protagonista. In Italia piace a tutti, ma se lo accaparra la Sampdoria. Lì troverà, tra gli altri, Roberto Mancini. Sono i nuovi “gemelli del gol”, nel segno di Baldini e Bassetto. Il resto è Storia: le tre Coppe Italia, la Coppa delle Coppe europea, lo Scudetto storico dei blucerchiati. Poi va a Torino, sponda bianconera, e chiude una carriera geniale a Londra, lato blues. Per dieci anni, in Italia Gianluca è Stradivialli, il migliore di tutti. In campo, si forgia come uomo. Ha una naturale dote da leader che esplode letteralmente nella scalata degli Azzurri agli ultimi Europei. È, come sempre, al fianco di Mancini. Guarda la malattia in faccia, mette le forze che ha per la squadra. Di più: per la Nazione. Il suo discorso ai ragazzi qualche giorno prima della Finale è ancora oggi in grado di stringere un nodo in gola anche ad un ateo del calcio. Alla fine, la malattia vince. Ma l’onore spetterà sempre all’uomo nell’arena.

“Quando ero più giovane avevo perennemente bisogno di dividere il mondo in 'noi' e gli 'altri'. Mi caricava. Alcuni storici lo definiscono bisogno del nemico. Oggi non ho bisogno di nemici.” - Siniša Mihajlović Chi lo ha conosciuto solo attraverso lo schermo o, tutt’al più, dalle tribune di uno Stadio, ha sempre pensato che Siniša fosse più simile a una tigre che ad un uomo. Ruggiva in campo – agli avversari, all’allenatore, persino ai compagni di squadra. Scattava su ogni palla, quando c’era da difendere. La mordeva, quando c’era da ripartire. La scaraventava tra i pali con una forza animale, quando c’era da fare gol. Da allenatore, poi… è stato per tutti il Sergente. La vita vera, però, racconta un’altra pagina di storia. Non che questa fosse falsa, anzi. Per conferme, chiedere a chiunque abbia guardato una partita di Samp, Lazio e Inter tra il 1994 e il 2006, o dei più recenti Milan e Torino. Quando torna a Bologna, dieci anni dopo l’esordio alla guida di una panchina, Siniša è però un altro uomo. Ha il piglio di un padre sì severo, ma pieno di affetto da donare ai propri ragazzi. In pochi mesi, la malattia lo travolge. Cade una volta, è ricoverato per un mese e mezzo. Si rialza, torna in panchina. Stupisce l’Italia e col sorriso in volto, lo stesso che in campo aveva più volte mascherato per non tradire l’immagine che gli stava cucita così bene addosso, beffa la morte facendo quello che più sa fare: vincere. Come tutte le storie, anche quella di Mihajlović finisce. Tra le lacrime di tutti e un sorriso: il suo.


 
 
 

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