di Ilaria Telesca
“Non imbarchiamo le vostre armi” era il grido di ribellione che risuonava nel porto di Trieste qualche settimana fa.
Ma cos’è successo? Perché questa mobilitazione?
Il 2 febbraio i portuali di Trieste e Monfalcone hanno avuto l’ordine di imbarcare un carico di armamenti di logistica e offesa, esplosivi e obici; all’arrivo dell’informativa hanno incrociato le braccia e minacciato lo sciopero permanente.
Negli scorsi anni i porti e gli aeroporti italiani sono già stati protagonisti di simili episodi.
I lavoratori hanno sempre cercato di denunciare l’incessante commercio di armamenti militari, spesso nascosto da operazioni di solidarietà.
A marzo 2022 fece poco scalpore una notizia in realtà molto particolare: una forte mobilitazione dei lavoratori dell’aeroporto di Pisa derivò dalla scoperta di casse di armamenti e munizioni destinate all’Ucraina che erano state spacciate per aiuti umanitari.
Sempre l’anno scorso i portuali di Genova bloccarono il porto per fermare la nave Bahri Jeddah contenente armi e tecnologie militari, imbarcazione che porta la bandiera dell’Arabia Saudita e che era destinata a supportare la guerra in Yemen.
Anche due anni fa, nel 2021, ci fu una forte protesta dei portuali di Livorno e di Napoli, i quali si schierarono contro lo “smistamento di armi che attraversano i nostri scali”, impedendo al portacontainer Asiatic Island di sostare a lungo nei nostri porti e di recuperare armamenti essenziali per l’offensiva israeliana contro i palestinesi.
Il grido di ribellione, in quei giorni, era chiaro e determinato: “Le nostre mani non si sporcheranno di sangue per le vostre guerre”.
Erano giorni di grande difficoltà per la stabilità lavorativa in Italia e nel mondo, la crisi dovuta alla pandemia alimentava tanta disoccupazione e nuova povertà, ma per i portuali questa non era una scusa abbastanza valida per non ribellarsi al commercio militare che è causa dei continui massacri civili, soprattutto in zone come il Medioriente.
I nostri porti sono sempre stati palcoscenico di ribellione e giustizia sociale, basti pensare alle proteste contro il Green Pass e ai continui scioperi con i quali si richiedono più sicurezza sul luogo di lavoro e maggiori diritti dei lavoratori.
Ad oggi, la guerra tra Russia e Ucraina ha reso i porti italiani essenziali per lo scambio commerciale con l’Europa orientale.
La crisi nel Mar Nero, infatti, ha portato l’Italia ad aumentare del 17% la quantità di merci in arrivo e partenza, non solo di prodotti agricoli e metallurgici ma anche di equipaggiamenti e strumenti militari.
L’Italia, negli ultimi anni, ha aumentato il suo traffico d’armi segnando il record storico di esportazioni nel 2021 per un valore di 4,8 miliardi.
Non tutta la popolazione, però, condivide la scelta di contribuire in prima persona alle guerre imposte da altri Paesi (il più delle volte, lo sappiamo, dal colosso a stelle e strisce).
Essere parte attiva del Patto Atlantico per la nostra Nazione significa non avere una totale autonomia geopolitica ed economica e, spesso, incoraggiare conflitti che causano difficoltà alla nostra stabilità sociale.
Le conseguenze della guerra in corso alle porte del Vecchio Continente dimostrano ogni giorno quanto non sia conveniente supportare chi alimenta uno scontro che non gli appartiene.
Bisogna aprire e affrontare una volta per tutte la discussione sulla costruzione, reale ed efficace, di un’Europa libera, sovrana e armata.
L’Italia riveste un ruolo strategico al centro del Mediterraneo, è quindi doveroso che i nostri porti siano determinanti per il commercio europeo e non; che lo siano, però, per rafforzare il nostro mercato e la nostra importanza a livello mondiale, per ritornare ad essere una potenza di riferimento per ogni decisione politica ed economica, a cui tutti devono guardare con ammirazione e volontà di collaborazione.
Comments