“Ciò che conta in guerra
non sono gli uomini,
ma l’Uomo come Soldato
che sa battersi fino in fondo,
difendendo un pezzo di Terra o,
contro ogni logica,
un brandello di Idea”
Basterebbero queste poche righe per raccontare chi fosse Paolo Di Nella, ma a quarantuno anni dalla sua morte ci troviamo ancora a dover far memoria e memoriale di ciò che accadde il 2 febbraio del 1983 nella zona Trieste-Salaria a Roma.
Gli scienziati dicono che la memoria sia un muscolo e che come ogni muscolo vada allenata e stimolata; queste righe vogliono rendere giustizia a chi giustizia non la ebbe a causa di una magistratura troppo spesso lenta e farraginosa, vuole dare onore a chi perse la vita “fuori tempo massimo” ucciso da una sprangata in testa mentre affiggeva un manifesto per una battaglia ecologista.
Paolo era un ragazzo del quartiere Africano nel nord est Romano, capelli arruffati e lunghi sulle spalle, diplomato al liceo scientifico Avocadro, vestiva con jeans e maglietta, portava dei grandi occhiali a goccia sul naso, ascoltava De Andrè e Pasolini. Un ragazzo normalissimo in una Roma difficile, violenta e divisa tra il rosso ed il nero. Paolo era un Nero, ma non nella declinazione che casarecciamente viene data, non era un violento né un nostalgico, Paolo era un soldato Politico, completamente devoto alla militanza nella sezione del Trieste-Salario, innamorato del suo quartiere che metteva al primo posto nelle battaglie che portava avanti giornalmente; quella sera era uscito in affissione con un'altra militante, Donatella, per affiggere manifesti per la riqualificazione del parco di Villa Chigi completamente abbandonato e chiuso alla fruibilità della comunità. Partendo dalla sezione di Via Sommacampagna e scendendo verso per la Nomentana giunsero a viale Libia, a pochi metri da piazzale Vescovio dove solo pochi anni prima un altro ragazzo del Fronte della Gioventù, amico di Paolo era stato barbaramente ucciso in nome dell’antifascismo militante, quel ragazzo era Francesco Cecchin, e mentre Paolo metteva la colla su un bandone pubblicitario due soggetti che stazionavano alla fermata dell’autobus li vicina lo aggredirono alle spalle e lo colpirono violentemente nuca. Paolo cadde a terra ma si rialzò immediatamente, venne soccorso da Daniele che era rimasta in macchina non fece neanche in tempo a suonare il clacson per quanto velocemente si sviluppò l’atto; andarono quindi ad un fontanella li vicino, Paolo aveva un taglio dietro l’orecchio che sanguinava, pregò l’amica di riportarlo a casa senza dire nulla a nessuno; si mise a letto, in testa come un martello pneumatico, iniziò il calvario, ma madre si sveglio e vide i vestiti sporchi di sangue, subito la corsa all’ospedale, troppo tardi Paolo era in coma. Operato d’urgenza, rimase in stato vegetativo per cinque giorni, i suoi camerati a vegliarlo quasi a proteggerlo. Nei corridoi dell’Umberto I, la rabbia esalava l’aria, ancora una volta a rimetterci era stato un ragazzo, ancora una volta era un Nero, ancora una volta la giustizia era lenta e svogliata nel fare il suo corso, ma a differenza degli anni ’70 la morte assurda e fuori tempo massimo segnarono un spaccatura netta nei cuori di quei ragazzi, non si sarebbe risposto più colpo su colpo, basta alla logica del sangue chiama sangue, la più grande vittoria per onorare Paolo sarebbe stato l’ESEMPIO, portare avanti le battaglie di Paolo per Paolo. Tutto questo vento di cambiamento fu alimentano da due eventi inaspettati, il primo fu la presa di posizione netta di Repubblica, contro gli aggressori che avevano rivendicato l’agguato, Autonomia Operaia, definendo l’atto come inumano e contro ogni logica politica; il secondo fu la visita senza cerimoniale del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini al capezzale di Paolo e le parole pronunciate ai ragazzi che occupavano i corridoi gonfi di rabbia: “la violenza, l’odio, il terrorismo agiscono contro tutto il popolo Italiano”. Per la prima volta ad un morto di Destra veniva riconosciuta una dignità pari a qualsiasi altro, e a farlo fu proprio n presidente rosso, un presidente partigiano. Subito dopo la visita del presidente Paolo spirò.
Paolo segnerà con la sua morte la chiusura di un capitolo della storia d’Italia che vide contrapposte due minoranze in una guerra civile non sempre manifesta che per dieci anni seminò una striscia di sangue lungo tutta la penisola. Paolo con il suo destino ha sigillato un capitolo della nostra storia diventando lo spartiacque tra chi scelse l’oblio e chi proseguì la strada tracciata da Paolo e i suoi fratelli mettendo al centro l’uomo, affinché esistano i rivali e non i nemici, cosi da non cadere nelle trappole del passato, mai più vecchia politica fatti colpi bassi e tradimenti, per quelle non servono le ali, basta saper strisciare come vermi.
Paolo come tanti altri non avrà mai i colpevoli consegnati alla giustizia, ma la sua più grande vittoria sarà la riapertura di Villa Chigi, tramite il continuo lavoro di quella comunità umana e politica che del suo esempio ne ha fatto tesoro, e l’intitolazione di una via che passa per quel parco intitolata a suo nome per mezzo di un Sindaco di Sinistra, un altro rosso, che come Pertini ha scelto la via del giusto a quella dell’ideologia cieca.
Sono passati quarantuno anni da quella notte tra l’otto ed il nove febbraio 1983 in cui Paolo ci ha lasciato, noi stiamo ancora qui, a portare le sue battaglie sulle nostre gambe, a ritrovarci davanti a quel muro di viale Libia dove giganteggia la frase PAOLO VIVE, a gridare ancora una volta che chi muore cadendo non muore mai: vive nella lotta della sua gente, sapendo che l’unico antidoto resta andare controvento e a non dimenticare mai.
Paolo era un soldato politico, vittima uccisa dalla violenza politica in nome dell’antifascismo militante, della logica per cui uccidere un fascista non è reato, degli opposti estremismi che giovavano ad altri.
Paolo è morto ma il suo ricordo vive nel ricordo, e non vi è uomo al mondo che sappia difendere le proprie idee con la propria pelle dovrà mancare di salutarlo.
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