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Paolo vive

di Matteo Malacrida


Nella vita di un Uomo, con la U maiuscola, quel che conta davvero è la capacità di mantenersi in piedi mentre tutto attorno il mondo sta crollando. E continuare, a testa alta e con lo sguardo sempre fiero, a compiere il proprio destino. Lo sapeva bene il giudice Paolo Emanuele Borsellino, nato a Palermo nel gennaio del 1940 e assassinato da Cosa Nostra trent’anni fa, in quel maledetto pomeriggio del 19 luglio 1992 al civico 21 di via Mariano D’Amelio.

Io accetto”, aveva detto solo venti giorni prima, “ho sempre accettato le conseguenze del lavoro che faccio, perché ho scelto di farlo e sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli”. Quella consapevolezza, che aumentava ogni giorno dalla morte del collega e amico di una vita Giovanni Falcone, lo aveva portato ad ingaggiare una disperata corsa contro il tempo per continuare le indagini fino al momento, inevitabile, in cui la mafia l’avrebbe ammazzato. “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo”, aveva spiegato, “non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, e so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.

In queste parole, rilasciate in un’intervista a Lamberto Sposini il 30 giugno 1992, sta tutto il senso di cosa significa vivere. Da queste parole, ognuno di noi può trarre il più alto degli insegnamenti: è dovere di ciascuno percorrere la propria esistenza con l’obiettivo di adempiere, ogni giorno, al destino che ci è stato assegnato.

Raccontare chi è stato Paolo Borsellino impiegherebbe fiumi d’inchiostro e, comunque, sarebbe riduttivo. La nostra generazione, tuttavia, è stata la prima a nascere nell’Italia che aveva conosciuto da vicino le stragi di Mafia e che, ingenua, credeva anche di averla sconfitta. I volti di Falcone e Borsellino, per la nostra generazione che non li ha mai conosciuti, sono volti familiari. Nei nostri occhi è impressa da sempre l’iconica foto di Giovanni e Paolo sorridenti, uno accanto all’altro, che si scambiano qualche battuta. L’abbiamo vista sui libri di scuola, sui murales, sugli striscioni, qualcuno persino sulle pareti degli istituti che portano il loro nome. E molti di noi, quando hanno varcato le porte delle sezioni, ne hanno sentito raccontare la storia dai più grandi. Che Paolo Borsellino fosse stato, in anni così lontani da noi ma a noi così cari, un dirigente del Fronte Universitario d’Azione Nazionale, lo abbiamo saputo più o meno tutti. E tutti sappiamo che dietro all’impegno militante della “generazione Atreju”, quella di Giorgia e degli “altri”, spesso c’è stata la volontà di riscattare l’Italia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio seguendo l’esempio di Uomini – e Donne – che per questa Nazione hanno dato la propria vita.


Paolo vive perché il suo sguardo ci ammonisce ogni giorno. Paolo vive perché ha seminato e tocca a noi il raccolto. Paolo vive perché nel suo sorriso c’è la forza di tutta l’Italia. Di quell’Italia che ogni giorno rifiuta “il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e della complicità”.


Nel nostro piccolo, siamo chiamati a mantenerne vivo non solo il ricordo ma anche e soprattutto l’azione. Ognuno nel proprio campo. Con gli amici, in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella militanza e nell’amministrazione. Nel suo nome.




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