di Mattia Ferrarese
Il 5 Febbraio 1909 sulle ardenti pagine della Gazzetta dell’Emilia vede la luce, in pieno stile declamatorio, il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. Una rottura provocatoria ed accusatoria verso la borghesia ottocentesca ed in antitesi, nonostante una quanto più vaga possibilità di raccoglierne l’eredità, anche con il decadentismo dannunziano che ha poi percorso parallelamente i binari di una crescita artistica trasversale ed opposta. Ripreso in francese da “Le Figaro”, grazie alle internazionali conoscenze Marinettiane, il testo si compone di differenti punti in una miscellanea di novità avveneristiche, valori millenari da cui paradossalmente fugge senza mai voltarsi indietro, interventismo militare sfrenato ed amore per l’Italia. Una tavolozza di colori che si riducevano al mero bianco e nero in contrasto con il laissez faire del contesto storico-culturale italiano di inizio ‘900, in cui la moderazione non era consentita e nuovi agitatori sociali avevano intere praterie su cui galoppare, sguainando la spada in difesa delle proprie convinzioni, sotto un cielo di lampi di genio e grandinate strampalate. Rivoluzione e controrivoluzione storica, culturale, politica, persino enogastronomica. Un manifesto tra i più incisivi nel proprio periodo storico, che incitava a nuovi movimenti - a tratti anticipando quanto sarebbe poi esploso negli anni seguenti in Russia e nell’Europa centrale - minacciando di distruggere arte e musei, ma che per puro contrappasso ora, in quegli stessi ed agognati spazi, vive e ci ricorda cosa siano stati i primi anni del ‘900. Avanguardisti totali, insomma, tanto da poter immaginare quanto fossero di difficile lettura per i propri contemporanei, pur bramando di incarnare lo spirito ultra moderno e modernista, ma mai progressista: mai globalista ed in continua lotta con quel torpore storico tipico delle ricchezze sociali cicliche dei periodi di boom economico e di benessere diffuso. Controversi in tutto e per tutto, sempre e comunque in contraddizione con loro stessi, i futuristi, erano capaci di sollazzarsi con le polibibite - il nome affibbiato ai cocktails dei sempre più diffusi american bar - mentre vagavano intellettualmente tra l’osannazione della macchina come sopraffazione dell’uomo e le contraddizioni di un sentimento di sfrenata attrazione nei confronti della donna e dell’amore. Il Manifesto futurista non è da condividere a pieno, non lo si potrebbe mai fare con la cognizione di lettura del nostro tempo, ma non è nemmeno da lasciar cadere nell’oblio: quella polifonica capacità di risvegliare le coscienze oggi ce la possiamo anche dimenticare, in una società omologata in cui tutti sono liberi di essere diversi ma obbligati ad essere uguali. Così il ferro ed il metallo delle macchine e degli aerei, scintilla nel riverbero di una folle sfida alla pasta o “al chiaro di luna specchiato nel naviglio”, dato che la natura dovrebbe, sempre secondo le variegate tesi marinettiane, lasciar finalmente spazio alle invenzioni dell’uomo: il passato in cambio del futuro, senza mai tagliare quel cordone che ci lega alle primordiali origini dei nostri avi. Innovazione come transizione, per ridare un nuovo volto al mondo intero e vivere nell’assoluto e nell’eterna velocità dell’onnipresente: le masse, la folla, la guerra, l’energia e la trasformazione della massa diventano i nuovi principi di un Olimpo immaginario, adornati di una sacralità che rinnega l’immobilità, il sonno e la passività. Trentenni assetati di vita, a volte troppo, capaci di rimettere al centro i giovani attivisti e competenti, continuamente in guerra con i propri simili e con l’universo, ma arditi nel pensiero e disallineati: “Alzate la testa! Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle”.
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