Patria, una parola scomoda
- Redazione
- 25 mag 2021
- Tempo di lettura: 5 min
di Bianca Marzocchi
“Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”.
[Giacomo Leopardi]
C’è una verità profonda dentro le parole di Leopardi, a maggior ragione oggi, in un’epoca in cui il grande capitalismo finanziario cerca di spingerci tutti all’interno di un unico contenitore chiamato mercato globale, per averci tutti indiscriminatamente come utili consumatori. E proprio riflettendo su queste parole, comprendo come ciò che distingue me da una persona dall’altra parte del globo è l’amore per la mia casa, la mia terra, la comunità in cui vivo, tutte cose con un nome, con una storia.
Però la parola “patria” non la sento usare quasi più.
Che sia un concetto troppo scomodo? Forse anche troppo politicamente connotato per poter essere parte del vocabolario della nuova società globalizzata?
Sembra che la nostra società, qui come dall’altro capo del mondo, così uniformemente globalizzata, non debba avere altro dio al di fuori del capitalismo, in cui si deve credere ciecamente, non debba potersi definire altro se non fluida, senza genere, e apolide, senza patria: l’individuo deve poter essere tutto, finendo per non essere niente.
Il globalismo ha contribuito a creare una società di sradicati, in cui la cittadinanza e la nazionalità non sono più intrinseche all’essere umano, ma atti giuridici acquisibili potenzialmente da chiunque, una società senza legami familiari, perché oggi tutto può essere definito famiglia e quindi niente di fatto lo è più e perché la famiglia come unità costitutiva della società è stata distrutta dalle battaglie progressiste, una società in cui non dobbiamo sentirci più legati alla nostra identità nazionale perché è scomodo, negativo, sentirsi figli della propria Patria.
Ora più che mai mi pare necessario ricordare il significato della parola “patria” semplicemente nella sua accezione primitiva e vera, e provare a capire che cosa ci sia di così pericoloso e potenzialmente distruttivo in questo termine per un sistema di pensiero che tende a cancellarla.
Se ci si fa attenzione la distruzione della parola patria ai fini di tramutarla in un termine vuoto, privo di un autentico significato, avviene costantemente, ma il primo luogo in cui il concetto di patria viene attaccato è la scuola.
L’istruzione pubblica è ciò che rappresentò una prima forma di unificazione culturale del Regno d’Italia, si diventò italiani studiando tutti la stessa lingua, la stessa letteratura e imparando a conoscere la storia: tutto ciò concorre a formare la consapevolezza di appartenere allo stesso paese, di condividere le stesse radici, la stessa cultura.
Nell’anno corrente penso si possa affermare con una certa sicurezza che la scuola italiana ha abdicato al compito di formare cittadini italiani, mostrando una sorta di negligenza verso le discipline che non possono essere valutate in termini di utilità pratica: potremo passare ore a discutere se le conoscenze storiche siano rilevanti nella vita pratica di un lavoratore qualsiasi, ma è un dato di fatto che la storia è una disciplina che contribuisce a fondare l’identità di un popolo e sempre più, a causa delle recenti riforme, sta venendo messa al bando; eppure un popolo che non conosce la sua storia, o la conosce per come viene raccontata dagli altri è un popolo che ha perso la propria identità.
La storia è un punto fondamentale nell’analisi del concetto di patria. Nelle scuole la storia viene insegnata alle nuove generazioni come se fosse la storia di qualcun altro, un qualcosa di lontano, remoto che non ha più nulla a che fare con noi. Non vengono insegnati i nomi di chi morì per l’Italia, non si studiano più le battaglie dei due conflitti mondiali, eppure a morire nelle trincee nel Carso non c’erano automi senza volto, bensì persone con una famiglia, con una casa, degli amici, con un nome, con un cognome: i nostri nonni e i nostri bisnonni.
Non ci viene insegnato che coloro che si sacrificarono a Nikolajewka e ad El Alamein sono i nostri antenati, gli stessi o i figli di coloro che vent’anni prima avevano combattuto sul Piave. Negli anni dal dopoguerra ad oggi si è pian piano cercato di erodere il legame che unisce passato e presente, il legame genealogico che c’è tra noi, uomini e donne del nuovo millennio, e i giovani della prima metà del ‘Novecento; il filo che unisce ciò che fu con ciò che è, la tradizione, si è spezzato: la maggioranza degli italiani non si sente più discendente di quegli uomini. Certo qualcuno può ancora sentire dal proprio nonno i racconti di quegli anni, tuttavia non li sentiamo più nostri, non ci definiscono, non fanno più parte dell’identità del nostro popolo. La svolta identitaria deve partire dalla storia, perché se sappiamo che il sangue che fu versato sul Carso, nel Piave, in Russia e in Africa è ancora il nostro sangue, che il sacrificio di quei ragazzi che nel 1915 sono partiti con lo zaino in spalla da casa, senza sapere se ci sarebbero tornati è il sacrificio fatto dalle famiglie dei nostri antenati, le cose cambiano: quella storia, prima fredda, anonima, diventa una storia viva, presente e parte delle nostre vite, con un nome, un volto, delle foto, delle lettere, la storia d’Italia diventa la nostra storia, una storia in cui è possibile identificarsi. Ecco che la parola patria torna ad acquisire un significato, non più astratto, ma concreto, vivo. Patria è la terra dei nostri padri, e l’idea di patria non può esistere se non accompagnata dalla consapevolezza di chi furono i nostri padri e dalla consapevolezza del legame che unisce loro a noi, se manca questa coscienza è davvero una parola meramente retorica.
La volontà delle classi dominanti di questo ultimo capitalismo globalista ha attaccato e distrutto la tradizione, la storia di sacrificio che per secoli legò i popoli alla propria terra, perché costituisce un pericolo terribile: un popolo che ha con orgoglio consapevolezza di ciò che è stato non si piega, un popolo che ha memoria dei sacrifici fatti per la Nazione da chi è venuto prima, e che sa che il sangue versato è ancora presente e scorre vivo nelle sue vene sarà predisposto a sacrificarsi a sua volta in nome di quello stesso ideale.
Ricomporre la tradizione, tuttavia, è un processo estremamente difficile, poiché a causa del lavoro di erosione che è stato fatto in passato la maggior parte delle persone ha perso interesse per questo genere di argomenti e come se non bastasse il mondo dei mezzi di comunicazione è intriso di propaganda globalista, intenti a minare il concetto di patria.
L’identità, di qualsiasi sorta essa sia, è nemica del neoliberismo; quest’ultimo ha reso la fluidità elemento essenziale del proprio ordine economico: convinci gli individui a credere nella fluidità e avrai anche la fluidità nei mercati, nessun confine, nessuna protezione delle economie locali, un unico enorme mercato composto da identici consumatori e il cosmopolitismo non è altro che la sovrastruttura della struttura neoliberista.
Di fatti “patria” non è una parola che rientra nei parametri dell’inclusione, tanto cara ai politici di sinistra, perché la Patria non si compra né si acquisisce con la cittadinanza. La Patria è data dal legame di sangue e non vi è ius soli o decreto di sorta che possano cambiare questo fatto, la patria è contraria al dogma che vorrebbe una società di sradicati apolidi, senza nulla per cui combattere se non il proprio profitto.
Non vi è identità senza patria e al contempo non vi può essere patria senza identità, solo riscoprendo la nostra nazione, e i valori millenari di cui è custode, potremo opporci al globalismo e allora il sacrificio di tutti coloro che per l’onore d’Italia sono morti non sarà stato vano.

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