Perché non festeggio il 25 Aprile.
- Redazione
- 25 apr 2020
- Tempo di lettura: 5 min
di Claudio Usai
Ogni anno la maggioranza degli italiani più o meno consapevolmente celebra «l’anniversario della liberazione d’Italia», come prevede il decreto luogotenenziale delle «disposizioni in materie di ricorrenze festive», proposto dal presidente del Consiglio A. De Gasperi e firmato il 22 aprile 1946 da Umberto II, luogotenente del Regno.
Ogni anno una parte degli esponenti politici si dissociano dalle celebrazioni.
Tempo fa il giornalista A. Carioti del Corriere della Sera ed esponente dell’associazione repubblicana “Ugo la Malfa” ha affermato: «Pensare che chi non la festeggi sia un fascista è una logica da “centro sociale”». «Il primo valore espresso dal 25 aprile è quello dell'inclusività. Di conseguenza ti permette di rispettare le posizioni e il valore anche di chi non vuole festeggiarlo, o non sente di doverlo fare».
Dunque, ho inteso scrivere questo articolo per rivolgermi ai giovani militanti di Fratelli d’Italia, iscritti al movimento giovanile di Gioventù Nazionale, approfittando del fatto per dare loro un motivo e un sostegno pedagogico e psicologico valido. Un punto va chiarito: non sono fascista; penso che nel 2020 nessuno dovrebbe dichiararsi “fascista del ventennio”, essendo il fascismo un fenomeno storico concluso, che ha avuto un inizio, un presente e una fine. Secondo me dichiararsi “totalmente” fascista equivale a definirsi pompeiano o cesariano, guelfo o ghibellino, realista o rivoluzionario.
Chi si tenta rappresentarsi in categorie del passato rischia di apparire antistorico, anacronistico, fuori dal tempo e dallo spazio della realtà italiana contemporanea. Ma ciò non può impedire a chiunque e in primis a me che scrivo di possedere una memoria storica che mi sento di portare avanti; invito anzitutto i più giovani a riappropriarsi della propria storia familiare, rendendosene orgogliosi, anche nel caso di una memoria antifascista: tant’è che ad aderire al M.S.I. Destra Nazionale, tanti furono gli antifascisti.
Mio nonno omonimo fu fascista e con fierezza fino alla fine dei suoi giorni.
Lo fu perché credette di fare il bene del Paese, di contribuire a far grande l’Italia, di difendere e allargare il suo impero; credeva nella patria, in Dio e nella famiglia (motto mazziniano, non fascista). Credette certamente nel fascio littorio di Roma immortale; combatté nella Guerra d’Etiopia, dove si distinse, diventando tenente di artiglieria; ebbe un ottimo ricordo fra i soldati eritrei che guidava, felicemente ricambiato, non essendo mai stato razzista; fu fatto prigioniero dagli inglesi a Bardia, in Libia, durante la prima sfortunata campagna africana del 1940. Di lui voglio citare un episodio tratto dal libro Bardia di Enzo Murroni: «Mi trovo davanti un caro amico di Cagliari, il Tenente di Artiglieria Claudio Usai, della Divisione Marmarica. Accompagna cinque prigionieri, componenti di un carro distrutto dal nostro tiro. Sono cinque giovani tarchiati e prestanti e ci osservano con lo sguardo un po’ smarrito. [...] Il Tenente mi dice che nel settore della «Marmarica» e della «Cirene» la lotta è aspra è il nemico viene contenuto. Non conosce la nostra situazione e pertanto i suoi giudizi si basano sulla limitata visuale del suo settore mentre è all’oscuro dei progressi fatti dal nemico. Non lo voglio tuttavia disilludere perché rientrando al suo comando non rechi con sé notizie demoralizzanti. Cela sotto la camicia una bandiera tricolore. Gliela chiedo, perché dovendo egli rifare in senso inverso un tragitto poco sicuro, potrebbe cadere nelle mani del nemico e la bandiera con lui: ma non vuole disfarsene e riprende con tutta tranquillità la via del ritorno in compagnia dei suoi soldati di scorta». Mio nonno aveva giurato una sola volta nella vita e teneva fede alla parola data. In merito alla persecuzione degli ebrei, vedendo anni dopo il film Il giardino dei Finzi Contini, mio nonno si commosse, chiedendosi, perché quei ragazzi si erano ritrovati al campo della villa e non al circolo del tennis per giocare? Perché i Finzi Contini, come molti dei loro amici e conoscenti, erano ebrei e come tali erano stati banditi dai luoghi pubblici.
Mio nonno non lo trovò giusto, perché era un uomo giusto. Ma egli non doveva chiedere scusa a nessuno per gli errori del regime. Perché non poteva sapere né decidere ed era prigioniero in una terra lontanissima. Ma vedendo quel film, provò dispiacere ugualmente, perché ciò che era stato fatto agli ebrei non era stata una cosa giusta. Fu rinchiuso in un campo di concentramento inglese in India e tornò in Sardegna solo nel 1948, dopo le elezioni politiche; perché era un “NON” (Non collaborazionista), perché doveva essere impedito ai fascisti di votare in quelle prime elezioni democratiche e al Referendum monarchia/repubblica.
Una volta tornato partecipò alla fondazione del M.S.I. di Cagliari, rimanendo nel partito fino al 1953, da ex - militare non intendeva occuparsi più di politica attiva, rimanendo fedele ai suoi principi.
Dopo questo ricordo personale, devo rispondere alla domanda: festeggerai il 25 aprile? No, assolutamente e volontariamente rispondo di no! Per una semplice ragione: perché quella data significa la sconfitta di mio nonno.
E intendo rispondere ad un’altra domanda: qual è la differenza fra memoria e storia?
Molti di noi pensano che la memoria e la storia siano la stessa cosa. Quando c’è l’anniversario di qualche avvenimento, lo ricordiamo; s’intende celebrarlo se è un evento positivo, oppure non celebrarlo se è una tragedia, come “la Giornata della Memoria” o “il Giorno del Ricordo”. Come ha affermato lo storico A. Barbero, di sinistra, ma ottimo storico: «Bisogna che anche chi non c’era sia informato di cosa successe». Nella percezione comune la memoria, cioè il ricordare, e la storia, cioè capire e sapere cosa è successo davvero, si crede siano la stessa cosa.
Il punto è che non è così. «La memoria è una cosa complicata, è parente della verità, ma non è la sua gemella». Quindi la memoria non è identica alla verità; ha a che fare con la verità, è individuale; ciascuno si ricorderà dell’avvenimento dal suo punto di vista. La storia è invece fatta dagli avvenimenti e dai fatti: ad esempio nel caso della Seconda Guerra Mondiale centinaia di milioni di persone furono coinvolte: questa è la storia. Ad una guerra partecipano tutti ed ognuno dal proprio punto di vista: questa invece è la memoria.
Spesso si sente dire: «serve una memoria condivisa». Il fatto è che la memoria condivisa non esiste, anche perché di solito la storia la scrivono i vincitori. Dopo la fine della guerra per tanto tempo, poiché aveva vinto la Resistenza e avevano perso i fascisti, ufficialmente erano quasi tutti d’accordo con il 25 aprile, ma i secondi si erano tenuti la loro memoria e Mezza Italia era rimasta intimamente fascista. Solo dopo tanti anni la destra entrò nella dialettica democratica, non essendo più nel fascista nel significato che gli antifascisti davano a quell’aggettivo, si è trasformata nella destra nazionale e democratica di oggi.
Finalmente da un trentina d’anni anche chi di nascosto aveva avuto dubbi sul 25 aprile, prese coraggio, anche perché nel frattempo era caduto il Comunismo, il Muro di Berlino e anche “il muro della paura”. Nel rispetto della memoria di tutti i morti della guerra civile, vinti e vincitori, le nuove generazioni devono rispettare i ricordi familiari di ognuno.
Non si può pretendere che un nipote di una persona “perbene” che fu fascista, festeggi il giorno di quella sconfitta; al tempo stesso “noi” non dobbiamo imporre ai nipoti di coloro che subirono le violenze fasciste, non provino rancore verso la destra; viceversa “gli altri” dovrebbero comprendere i parenti di coloro che subirono le efferatezze delle vendette partigiane, spesso senza alcuna motivazione.
Perché la destra, la nostra parte politica, nei limiti del possibile deve rivolgersi a tutta la nazione italiana, non a una classe sociale o una singola categoria di persone come fanno gli altri; essa deve parlare a tutta la popolazione italiana, trasmettendo unità, concordia e amor di patria. Cercando di costruire con le parti politiche avversarie più ragionevoli una storia comune, in attese di una definitiva riconciliazione nazionale, vale a dire una storia che spieghi le motivazioni dei vinti e dei vincitori, che non furono nessuno di loro globalmente ne cattivo ne buono, ma esseri umani, che se sbagliarono ne risposero alla giustizia terrena o a quella divina, o si spera almeno alla loro coscienza.

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