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RADICES. Yukio Mishima, tra spada e maschere

di Andrea Piccinno


Tokyo, 25 novembre 1970.


Dal balcone dell’ufficio del generale dell’esercito di autodifesa giapponese, si affaccia un uomo di statura media, ma con uno spirito da gigante, l’ultimo vero samurai. Si volta verso le migliaia di uomini del reggimento di fanteria che lo osservavano dal basso. Freddo, sillabando ogni singolo suono, sentenzia: <<È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.>> .

Subito dopo rientra nell’ufficio e, una volta inneggiato all’Imperatore, si toglie la vita tramite seppuku, il suicidio rituale dei samurai, lacerandosi il ventre e facendosi poi decapitare dal suo discepolo più fidato, Masakatsu Morita, anche lui morto suicida, pochi minuti dopo, per la vergogna di aver commesso un errore durante l’esecuzione.

Moriva così, quarantanove anni fa, Yukio Mishima, scrittore, drammaturgo, saggista, poeta, attore, regista, artista marziale e culturista giapponese.

Ripudiato dalla sinistra per il suo acceso nazionalismo, respinto dalla destra più bigotta e conservatrice per la sua presunta omosessualità, Mishima rimane una delle più affascinanti e controverse figure del XX secolo. Una vita intensa, dedita completamente all’arte, in ogni sua forma. Più volte in odore di Nobel, è ancora oggi l’autore giapponese più tradotto al mondo. Ma, nonostante ciò, è la sua morte, simbiosi di Pensiero ed Azione, il gesto in grado di descriverlo meglio.

Yukio Mishima nacque il 14 gennaio del 1925 a Tokyo. Fin da ragazzo, fece i conti con il suo sfrenato nazionalismo: l’esonero dal servizio militare fu l’evento che lo portò a trascorrere il resto della propria esistenza all’insegna di una profonda vergogna. Mentre i suoi coetanei morivano sui campi della Seconda Guerra Mondiale, lui era sopravvissuto senza neppure aver potuto combattere per la sua patria.

Nel 1949 pubblica “Confessioni di una maschera”, probabilmente il più fortunato dei suoi numerosi romanzi, in cui, attraverso il protagonista Kochan, racconta la sua infanzia e la sua adolescenza, fino allo sviluppo e l’accettazione della sua omosessualità. Le “maschere” di cui Mishima tratta in quest’opera torneranno sovente negli scritti successivi e nella sua stessa biografia, ricca di colpi di scena e contraddizioni. In questo romanzo, capolavoro di angoscia e anomia di una generazione cresciuta dopo la guerra, si intravede già la determinazione con cui l’autore giapponese tende verso la morte, come tutti gli esseri avidi di vita.

Durante gli anni ’50 visita Stati Uniti, Brasile ed Europa, come corrispondente di una testata giornalistica giapponese. Non verrà colpito dagli USA, più avvezzi al sarcasmo che al tragico, a roteare i sigari che la katana, ma sarà soprattutto la Grecia classica ad affascinarlo: illuminato dalla suprema estetica mediterranea, inizia a dedicarsi al culturismo ed alle arti marziali, in particolare al Kendo.

Nel 1958, per compiacere la famiglia, si sposa con una donna da cui avrà due figlie. Questo contribuirà ad alimentare il dibattito sul suo orientamento sessuale, nonostante fossero note le sue visite ai gay bar e vari uomini, dopo la morte, sostennero di aver avuto relazioni con lui.

Il suo ultimo romanzo, “La decomposizione dell’angelo”, si conclude simbolicamente, il 25 novembre 1970, data di suicidio dello scrittore.

Nel 1966 interpreta, in un film giapponese, un samurai che morirà tramite seppuku. Per questo stesso film, verrà soprannominato come il “James Dean nipponico”. Mishima, all’apice del suo successo, è ormai una star internazionale. Ospita nella sua casa a Tokyo lo scrittore italiano Alberto Moravia, che lo ricorderà come <<molto piccolo, ma con quell’aria marziale, energica, virile ed aggressiva che hanno talvolta i giapponesi. Aveva un volto di un ovale perfetto, dai tratti oltremodo regolari e immobili, un po’ simile ad una maschera>>. Quale maschera? Quella del samurai, ovviamente. Maschera che, sempre più, prendeva effettivamente forma sul viso del polivalente artista giapponese.

Venne anche ritratto, in una delle sue più celebri tele, dalla rockstar britannica David Bowie. Una tela che, come scrive Pauline Pinot, potremmo definire espressionista, piena di colori forti, violenti, passionali, proprio così come era passionale lo stesso Mishima; passionale e intransigente, severo con sé stesso fino a darsi la morte per “eccesso di vita”. Sembrerebbe un paradosso, ma la vita di Mishima fu essa stessa un paradosso.

Più volte fu paragonato all’italianissimo Gabriele D’Annunzio, soprattutto per la bellezza della poesia e la cura pressocché impeccabile della propria immagine pubblica. In realtà, lo stile certamente barocco di alcune opere dannunziane è spesso presente anche in Mishima. Allo stesso modo la disciplina, riversata totalmente in ambito politico dal Vate, viene usata come forgia del corpo e dello spirito, prima che politica (a Fiume il primo, alla morte il secondo) dal giapponese. Punto di sicuro incontro è, poi l’erotismo. Questo, in Mishima, è visione, è congiunzione tra disciplina e virtù, tra forza e debolezza, è il chiaroscuro che il neoclassico desidera nella scultura.

Sarebbe un errore magistrale, però, considerare Mishima solo come esponente di spicco della cultura pop orientale del Ventesimo secolo. Abilissimo pensatore, le sue “Lezioni spirituali per giovani Samurai” sono ancora oggi uno dei testi immancabili nella libreria e nella mente di ogni buon militante e di ogni buon dirigente di partito. Come pochi altri suoi contemporanei, Yukio Mishima riuscì a descrivere l’assoluta bellezza delle Idee che divengono Azione, prestando anche il suo corpo e la sua stessa vita a questo fine. In “Neve di primavera”, primo romanzo della tetralogia de “Il mare della fertilità”, scriverà: “È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?”.

Fortemente critico nei confronti della Costituzione del 1947 e del Trattato di San Francisco che impediva al Giappone di possedere un esercito sovrano, Mishima creò il suo piccolo esercito paramilitare di appena cento giovani universitari da schierare contro ciò che aveva subordinato alla democrazia e all’occidentalizzazione il sentimento nazionale giapponese. L’Associazione degli Scudi, questo il nome, “non compirà nessuna impresa, non parteciperà alle dimostrazioni in piazza, non distribuirà volantini, non getterà bottiglie Molotov, non scaglierà sassi, non organizzerà comizi e non dimostrerà contro nulla e nessuno. Parteciperà solamente allo scontro decisivo.”

Il 25 novembre 1970, Yukio Mishima ed il suo esercito entreranno in azione per la prima ed unica volta.

Prima di dirigersi verso il ministero, lasciò scritto su un piccolo biglietto di carta: “La vita è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.

E così fu. Noi, ancor oggi, rendiamo onore a Yukio Mishima, ultimo samurai e patriota, simbolo eterno di un Giappone immortale.





 
 
 

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