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San Bettino, prega per noi

di Matteo Malacrida

Puntuali come orologi svizzeri, ogni 19 gennaio spuntano a destra e sinistra ricordi e pensieri commossi rivolti “all’ultimo grande statista italiano”. All’anagrafe Benedetto Craxi, per tutti “Bettino”. Scomparso nel 2000 ad Hammamet, latitante in Tunisia, del vecchio leader socialista rimane un’eredità pesantissima ancora oggi. Il primo a raccoglierla in politica, e non poteva essere altrimenti, è stato il suo “protetto” Silvio Berlusconi, che infatti già nella prima Forza Italia aveva radunato e candidato diversi esponenti del Garofano. Quelli rimasti fuori dalla travolgente inchiesta di Mani pulite, naturalmente. L’opinione degli italiani, mutevole come da proverbiale tradizione, sull’uomo e sul politico conosce e percorre una sorta di enorme montagna russa: prima, è il grande Capo del Governo che difende gli interessi Nazionali e modernizza la Nazione; poi, è il grande ladro e corrotto che raccoglie tangenti a destra e a manca in cambio di pesanti favori politici a industriali e lobbisti; infine, è l’esule “à la Garibaldi”, costretto a lasciare una terra “ingrata” e dimenticato da tutti. Quando muore, come spesso accade, l’opinione pubblica torna a dividersi, a lacerarsi. C’è chi non commenta, chi è pronto a sciacallare sul cadavere, chi stappa una bottiglia di spumante, chi prova a tirarlo per la giacchetta dalla sua parte e chi veste i panni dell’avvocato in contumacia. In tanti cambiano idea col tempo, altrettanti invece restano inamovibili, dimostrando una coerenza che forse però si confonde nell’ottusità. A mutare più di tutti l’opinione sul politico sono ahimè i ragazzi di destra della “generazione Raphael”: il nome, naturalmente, viene dall’hotel di Milano presso cui il 30 aprile 1993 Bettino venne travolto dalle contestazioni e dalle monetine. “Vuoi pure queste?”, gli cantano i giovani che non ne potevano più della politica delle “forchette nazionali” che per decenni, mentre teneva a debita distanza una certa parte politica, mangiava sulle spalle degli italiani. Oggi, anche a destra, c’è una certa riluttanza nel ricordare quei giorni. Molti ne prendono le distanze, rinnegano quei momenti. Nel fuggi fuggi generale, dimenticano forse il clima a cui la Nazione era costretta nella tanto celebrata Prima Repubblica, finita anzitempo e per giustizia sotto il tintinnio delle manette milanesi. Non è casuale, e non deve apparire (solo) come uno dei tanti cambi d’opinione dovuti alla maturità o al tempo che scorre. In mezzo, ci sono stati trent’anni di inchieste politicizzate, di magistrature rosse sempre pronte a colpire solo da una parte, di giornaloni allenati a gridare allo scandalo quotidiano. Oggi è quasi impossibile, tanto a destra quanto a sinistra (fatti salvi grillini e pochi altri), sentir parlare bene del famoso pool di Di Pietro, Colombo e Davigo. Pesa su questo certamente la tragicomica esperienza politica del primo, ma anche il trasferimento su di loro delle immagini di altri Pm, questi sì, davvero politicizzati. Davvero parte di un sistema che mira solo all’annientamento totale di strutture e sovrastrutture, di persone e di famiglie.   È un errore. La vicenda di Craxi si inserisce in un quadro radicalmente differente da quello, per intenderci, dei primi Duemila o di questi anni Venti tra rubli e lobby inesistenti. E se anche si ritenesse, in sfregio ad ogni sentenza, che Craxi non fosse sufficientemente colpevole, ci correrebbe l’obbligo di passare dal lato prettamente giudiziario a quello politico più alla nostra portata. Perché a stonare con le “agiografie” dei cantori craxiani sono, a ben vedere, proprio i fatti politici. Viene ricordato quale “grande statista” fosse, ma si dimenticano il taglio della scala mobile e la crescita mostruosa del rapporto debito/pil (da meno del 70% a oltre il 90%). Lo si dipinge quale padre dell’Europa unita, come se questa Unione da lui sognata fosse un bene. Se ne parla come di un grande sostenitore delle cosiddette attività umanitarie della NATO, per l’appunto. A salvarsi almeno in parte da una pagella politica che non può che essere impietosa, c’è solo la vicenda di Sigonella: la sua difesa della sovranità italiana, però, fu nulla più che una (doverosa, sia chiaro) dimostrazione di antiamericanismo estemporaneo, tanto che “dimenticò” che oltre al commando di terroristi sarebbe stato il caso di arrestarne anche il capo, Abu Abbas, tornato invece impunito in Patria non senza lasciare qualche ombra sui rapporti di sudditanza tra l’FLP e il nostro Governo “sovranista”. Qualcosa in più, poi, andrebbe detto anche sull’enfatica analisi sociologica che sempre accompagna le agiografie del nostro Bettino, con la celebrazione degli anni ‘80, della “Milano da bere” e della coorte craxiana di “nani e ballerine”. L’epoca, a dirla tutta, del passaggio definitivo dalla Politica delle idee a quella del godimento. “Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: Platinette. Perché Platinette ci assolve da tutti i nostri mali, dalle nostre malefatte. Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate il sabato sera. È vero o no? Ci fa sentire la coscienza a posto Platinette. Questa è l’Italia del futuro: un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte.” E anche Boris l’abbiamo citata. Certamente, Bettino Craxi non fu soltanto un criminale, come soltanto non fu un grande uomo. Ebbe dei meriti, più da capo politico che da statista, come quello di condurre alla guida della Nazione un Partito che per decenni era rimasto schiacciato tra democristiani e comunisti. Certamente, fu tra i pochi a non emarginare completamente il Movimento Sociale Italiano, anche se sarebbe un errore madornale e masochista considerarlo (insieme al suo protetto) parte dello “sdoganamento” della destra italiana. Resta il rispetto per un uomo che ha sofferto, ma che a più di vent’anni dalla sua morte lo si sia canonizzato, da destra a sinistra, non può che lasciare tanto imbarazzo.



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