di Andrea Canino
Eschilo, drammaturgo greco del V secolo a.C, nella celeberrima tragedia Agamennone, coniò il termine πάθει μάθος, al fine di descrivere la peculiare condizione umana secondo cui solo il dolore porta alla conoscenza, alla vera comprensione della profondità dell’essere umano. Un concetto forte e concreto, che erige il dolore a strumento educativo contro il relativismo e al pensiero debole.
Ecco, se Eschilo potesse rivivere anche un minuto del nostro tempo, noterebbe come la società odierna abbia decostruito completamente tale concetto, stigmatizzando il dolore nella sua più intima radice: la scelta. In fondo, non è per nulla nuovo l’accostamento tra il termine scelta e il termine dolore.
La tradizione cristiana colloca l’inizio della sofferenza umana conseguentemente alla scelta di Adamo ed Eva, allegoria dell’umanità tutta, di trasgredire i divieti di Dio, lasciandosi tentare dal Demonio. Inoltre, l’etimologia stessa della parola scelta proviene dalla lingua latina ex – eligere, ossia selezionare, preferire. In ogni scelta, quindi, è insita si una preferenza, ma anche una rinuncia consapevole e, in molti casi, sofferta: è un atto di libertà estrema e di responsabilità senza eguali.
Ma allora, nella società della libertà di affermazione sfrenata, perché stigmatizzare tanto la scelta?
La nostra società vive in questo senso un grandissimo paradosso. Questo si può rilevare principalmente nei più giovani, dominati dalla fatica e dal timore nel prendere molte delle decisioni che, proprio il giovane adulto, dovrebbe selezionare, con il giusto senso di libertà e di responsabilità. Pierpaolo Pasolini, nella seconda metà del secolo scorso, introdusse un termine molto significativo riferito alla società del suo tempo, ma che si è rivelato un termine illuminante, anche per gli anni a venire: la società del benessere.
Ed è forse questa la chiave di lettura valida per la contemporaneità: una società che offre sempre più opportunità, risorse e benessere ha i suoi pregi, ma anche i suoi difetti.
Di fronte all’aumento in Occidente dell’individualismo e del consumismo, molti giovani sono cresciuti e, forse mai svezzati, da una condizione facilitante sotto molti punti di vista. Le coppie genitoriali, figlie di un Novecento burrascoso, tendono ad accomodare le proprie creature sollevandole dalle più importanti responsabilità e consapevolezze per un unico grande motivo: evitare loro di soffrire, di sperimentare il dolore.
Si è sempre più sviluppata, quindi, una cultura fortemente fobica nei confronti del dolore, dipingendolo come stigma sociale da evitare, da fuggire.
Di fronte a questo quali sono state le conseguenze? Un’assenza sempre maggiore di stimoli. Perché, in fondo, se i genitori coprono i recettori sensoriali ed esperienziali dei propri figli con comodi e caldi cuscini viziosi, che necessità ha il giovane di uscire dalla sua comfort zone per trovare un’ipotetica realizzazione? Che senso ha esperire il reale, se sul divano di casa, lontano dai pericoli e con tutto a portata di mano faccio meno fatica? Quello che può sembrare quindi un generoso gesto d’amore genitoriale, si trasforma immediatamente in una pericolosa bolla protettiva e alienante.
Un involucro ermetico e impermeabile sotto ogni punto di vista, una barriera fonoassorbente che, nel tepore del tinello domestico, cela all’umano la complessità del mondo.
Questo ha portato inevitabilmente alla formazione di giovani adulti estremamente disinformati sotto più aspetti: quello che è a portata di Social diventa la cultura di riferimento, perché comodo e a costo zero; ciò che richiede fatica, informazione e, per certi versi, confronto e introspezione, diventa troppo doloroso per poterlo affrontare. Inevitabilmente però, arriva il momento della disillusione, della rottura della bolla causata dagli appuntiti spigoli della realtà. Ed è in quel momento che il giovane adulto sprofonda nell’ansia più acuta per dover sperimentare un mondo di responsabilità e fatica, che prima non aveva mai conosciuto.
È interessante, allora, capire la risposta della realtà di fronte a tanto sgomento.
Di fronte alla situazione paradossale che catapulta il giovane in un mondo mai conosciuto, la società, anziché incentivare l’informazione, permettendo alla persona di costruire la propria consapevolezza, al fine di compiere scelte libere e responsabili, cerca di nuovo di ricorrere alla facilitazione.
La nostra società indebolisce le conseguenze dimostrando al giovane che si può sempre tornare indietro con la stessa facilità con cui si è compiuta la scelta.
Le testimonianze a tal proposito sono molte.
In America l’aborto è consentito fino al nono mese di gravidanza, il divorzio è costantemente sottoposto a procedure che lo rendano sempre più sbrigativo ed economico, il politically correct è diventato un elemento egemone per evitare di turbare l’altro e per evitargli di schierarsi, sotto ogni punto di vista.
Di fronte a questa fobia per la scelta, per la conseguenza e per il dolore, il giovane che, invece, intraprende un percorso di consapevolezza e responsabilità, diventa un outcast, o, per meglio dire, uno sfigato. Al posto quindi di riporre fiducia nei pochi elementi che preferiscono l’esperienza autonoma del reale ai morbidi cuscini otturanti, li si schernisce e deride perché troppo consapevoli, troppo determinati. Ma forse, in questo caso, il punto è un altro; quei pochi giovani, soggetti a critiche e a emarginazione, hanno un grande difetto, intollerabile agli occhi del soggiogato comodone: sono liberi. Liberi di esperire, di soffrire e di costruirsi responsabilmente, di realizzarsi completamente, per poter vivere ogni giorno appagati e fieri del proprio percorso.
Liberi di guardare negli occhi la mediocrità e l’ipocrisia, che infonde un’irrazionale paura verso la conoscenza, verso le conseguenze di ogni scelta, per potergli ogni giorno ripetere: chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola (Cit. Paolo Borsellino).
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