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Tenersi in piedi in un mondo di rovine

di Matteo Malacrida


“Si lascino pure gli uomini del tempo nostro parlare. Li si lascino alle loro verità e ad un’unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine.”


Così scriveva il filosofo Julius Evola, al secolo Giulio Cesare Andrea, nella sua “Rivolta contro il mondo moderno": un testo che, a dispetto dei quasi novant’anni trascorsi dalla sua prima pubblicazione (l’originale è del 1934), è forse più contemporaneo oggi di quanto non lo fosse nel secolo scorso.


L’analogia, poi, con gli inchini alla religione laica dell’antirazzismo di facciata targata “black lives matter”, viene da sé: a maggior ragione se la notizia di queste ore è che, dopo la pantomima andata in scena prima di Italia-Galles (con gli Azzurri incerti sul da farsi e divisi di fronte ai gallesi prostrati in segno di autoflagellamento), i nostri non intendono replicare la scenetta nell’incontro che, questa sera, vedrà contrapposta l’Italia all’Austria.


La pressione, da non ignorare o sottovalutare, aveva iniziato a colpire i nostri già dalle prime battute di questo Europeo: giornalisti, opinionisti e politicanti “per bene” hanno martellato per giorni sulla necessità di mostrarsi vicini al movimento più squallido del decennio. Sì, anche peggio di quello capitanato dalla Thunberg.


Eppure, anche se qualche calciatore delle seconde file si è inginocchiato (soltanto cinque, di cui due oriundi: Emerson, Toloi, Pessina, Bernardeschi e Belotti), diciannove Azzurri sono rimasti in piedi, fieri di rappresentare un popolo che, salvo qualche folle minoranza, non ha alcuna intenzione di piegarsi alla dittatura del politicamente corretto.


Quella che ormai appare come una tragica e ridicola moda, a ben vedere, è infatti l’ennesimo atto di sottomissione culturale che gli occidentali sono chiamati a compiere, pena la messa all’indice dei razzisti. E dunque, anche una scelta che a noi sembra scontata e doverosa (ma che evidentemente non lo è) diventa un gesto di ribellione: rimanere in piedi, oggi, significa rendere proprio quel senso d’appartenenza e quel sentimento nazionale che sono le sole ragioni che, anche agli inconsapevoli “patrioti della domenica”, fanno tremare le gambe e impazzire il cuore quando scendono in campo gli Azzurri.

A maggior ragione quando ci troveremo di fronte gli eredi di quella grande Nazione che, nella nostra Storia, a lungo ha tentato di reprimere il Tricolore: qualcuno ci ha “accusato” d’aver esagerato con la retorica dopo la vittoria sulla Turchia ed il parallelismo con Lepanto, ma se volessimo ridurre i nostri orizzonti al campo da gioco scriveremmo per la Gazzetta dello sport.


Italia-Austria, infatti, non è soltanto una partita di calcio, non può esserlo. Banalmente, perché in Italia il calcio – e chi lo conosce senza paraocchi lo sa bene – non è soltanto calcio. È emozione, è storia, è passione, è tradizione. Elevate all’ennesima potenza, poi, quando si tratta della Nazionale.

E allora ben vengano gli sfottò e gli slogan, i pensieri che corrono alle Cinque giornate o alla Prima guerra mondiale. Specie a ridosso dell’anniversario di una delle battaglie più romantiche – e crude – del Grande conflitto: tra il 15 e il 24 giugno del 1918, a ridosso del Piave, l’esercito italiano e quello austriaco si affrontarono alla morte in quella che Gabriele d’Annunzio fece passare alla storia come la “battaglia del Solstizio”. In quell’occasione, i nostri ricacciarono indietro l’avanzata dell’Impero e prepararono la strada al trionfo finale di Vittorio Veneto.


E il compito degli Azzurri, questa volta armati soltanto di scarpini e delle proprie abilità tecniche, è pressoché lo stesso: rimandare l’Austria a casa per aggiungere un tassello ad un percorso che, sinora, è stato perfetto. E che dovrà continuare ad esserlo, perché da oggi non si può più sbagliare: pena, l’eliminazione.

Nessuna Caporetto, insomma, e nessuna gloriosa epopea della rivincita. Per una volta, dovremo “accontentarci” di vincere, vincere e ancora vincere. Per continuare a sognare.

Avanti, Italia!


 
 
 

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