Una storia di libertà - Almerigo Grilz
- Redazione
- 19 mag 2020
- Tempo di lettura: 4 min
di Francesco di Giuseppe
Sono quasi fuori tempo massimo, è ormai sera inoltrata e il 19 maggio sta quasi svanendo nelle tenebre profonde, ma non posso non fermarmi a scrivere qualche rigo in più per ricordare una figura per molti, troppi, sconosciuta che ha segnato profondamente la destra giovanile: Almerigo Grilz.
Come ricordava qualche anno fa l’amico Dario Lioi, una delle menti “libere e pensanti” che gravitano attorno al nostro mondo, in una bellissima e commovente nota:
<<Nell'era digitale, se hai tra i 14 e i 30 anni e militi a destra e sei curioso, avrai quasi di certo incontrato la figura di Almerigo Grilz guardando su google un'immagine del campo di formazione di Cascia del Fronte della Gioventù in cui si vedono i noti Fini, Gasparri, Almirante e lui.
È lo sconosciuto, quello che non hai mai visto in un dibattito televisivo, in una dichiarazione pubblica, in una manifestazione nazionale.
Cerchi allora su google e scopri che è morto nel 1987 in Mozambico.
Come mai in Mozambico ti chiedi?
Leggi: colpito da un proiettile mentre effettuava riprese cinematografiche in veste di inviato di guerra.
Se sei fortunato e hai i giusti amici su facebook vedi lo splendido documentario che Gian Micalessin ha girato per andare a trovare l'albero di Almerigo, il punto in cui cadde e fu sepolto; perché a casa non tornò.
Se sei fortunato qualcuno ti racconta di come Almirante solo a lui concedesse di utilizzare la croce celtica come simbolo senza ripercussioni.
Se sei fortunato qualcuno ti racconta che sarebbe dovuto essere lui il segretario del Fronte in quota Almirante e non Fini, prima della famosa assemblea del 77. Se sei fortunato, ad Atreju, durante la presentazione di un libro, quando Marco Valle ricorda il "metodo Grilz", fai partire dal pubblico l'applauso per il ricordo.
Se sei bravo comprendi che è esistito un modello di stare alla vita differente, di vivere davvero>>.
Di questa nota, condivido ogni parola e torno spesso a leggerla quando la quotidianità della politica sporca la purezza dell’ideale e occorre ossigeno, come questo, per rigenerarsi.
Torno a leggerla perché in poche parole tratteggia l’essenza di Almerigo Grilz: l’animatore, la mente e il corpo del Fronte della Gioventù, famoso per il suo grande attivismo, per i grandi numeri, per i successi nelle scuole e nelle piazze.
Trieste, la sua città, vedeva nei suoi anni di militanza la storia in presa diretta con i vari governi che giocavano con il destino di quella città.
E grazie a “Ruga” (questo il suo soprannome) in tutta Italia si inizia a parlare di foibe, degli orrori slavi, di Trieste abbandonata e di una destra di popolo in lotta quotidiana a riscattare la dignità e l’italianità di quella terra, tra un’occupazione a scuola o all’università e una grafica da preparare.
Perché oltre che catalizzatore di pensiero Almerigo aveva la capacità unica di riportare su ciclostile anche immagini uniche, come quella del manifesto del tesseramento del Fronte della Gioventù del 1981 che porta la sua firma.
Grilz divenne presidente del Consiglio Nazionale del FdG, entra a far parte del Comitato Centrale del Movimento Sociale e venne eletto al Consiglio Comunale di Trieste, non andò oltre nella sua “carriera” politica un po’ perché schiacciato dai vertici triestini del partito un po’ perché Almerigo finì per stancarsi piano piano della politica italiana, rimanendo però un fervente missino e mettendo a disposizione la sua passione per il giornalismo che ormai era diventato, a tutti gli effetti, la sua vita portandolo negli angoli più remoti del globo.
Fu allora che cominciò a vivere l’esperienza dell’inviato di guerra come scelta di militanza, un modo concreto di fare controinformazione.
Dissenso, Il Candido e il Secolo d’Italia iniziarono a ospitare i suoi reportage.
Una vita scandita dal motto “Why not?”, perché no, che usava dire nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa.
“Why not” divenne un motto, che assieme all’amico inseparabile Gian Micalessin lo portò, telecamera in spalla, a raccontare la cosiddetta “pace” degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze.
Dalla fine degli anni Settanta in poi Grilz è, come ama definirsi, inviato di guerra indipendente, freelance, nei territori più “caldi”: dall’Afghanistan occupato dalla Russia, al Libano contrapposto a Israele, all’Etiopia sconvolta dalle guerriglie, alla Cambogia, alla Thailandia, alle Filippine, all’Angola.
I suoi resoconti vengono rilanciati da Cbs, France 3, Nbc, Panorama e Tg1.
Nel 1983 con Gian Micalessin e Fausto Biloslavo fonda la Albatros Press Agency, un’agenzia giornalistica che produrrà servizi scritti, fotografati e filmati in aree del mondo interessate da fenomeni bellici o rivoluzionari.
Quattro anni dopo all’alba del 19 maggio di trentatré anni fa, in Mozambico, un proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell’attacco alla città di Caia.
Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Della sua morte ne parlarono diffusamente televisioni e giornali in ogni angolo del pianeta.
Non altrettanto si fece in Italia, sia pure con rare e lodevoli eccezioni.
Se il nome di Grilz è inciso sul monumento che “Reporters sans frontières” ha dedicato in Normandia a tutti i giornalisti caduti sul campo, da noi continua a creare imbarazzo e ostracismi.
Qualcuno l’ha definito l’inviato ignoto.
Per me rimane la migliore anima libera.

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