di Salvatore Tuzio
Il più grande limite dell’uomo occidentale moderno è filtrare ciò che nel mondo avviene leggendo tutto in chiave occidentale. Ed è così che uno dei conflitti più duraturi del secondo dopoguerra viene polarizzato dandogli un taglio da ultras da stadio, dove tutto è un “Cattivi contro i Buoni”, democratiche illusioni direbbe una canzone, dove tutto risulta decontestualizzato e di conseguenza prende di senso.
Che in Palestina ci sia un conflitto che dura da più di 60 anni non lo si scopre di certo oggi, o meglio forse lo scoprono gli occidentali che vedono tutto con occhio miope; sicuramente a chi ancora riesce ad usare uno sguardo critico non risulterà strano l’attacco di una fazione e la risposta dell’altra, perché è (a)normale prassi almeno dal 1993 quando vennero siglati gli accordi tra Rabin e Arafat, ciclicamente in alcuni periodi dell’anno inizia lo “scambio” di pezzi di artiglieria lungo il confine sud ovest dove a pagare poi sono sempre i civili.
Una attenta analisi sulla questione israelo–palestinese, se va condotta, deve quindi partire da lontano, ovvero da quando nel 1948 venne creato dal nulla lo Stato di Israele dalle neonate Nazione Unite con la risoluzione 181 che deliberava la pacificazione dell’area non riuscita alle forze colonizzatrici inglesi nella prima metà del ‘900 , dividendo cosi il territorio in due Stati autonomi e Sovrani, quello Ebraico che occupava il 55% del territorio per il 37% della popolazione di religione Ebraica e il restante 45% di territorio sotto il controllo Arabo la cui popolazione era il 63%, lasciando i territori più fertili nello Stato ebraico e quelli più montuosi agli Arabi.
Ovviamente la popolazione Araba non accettò le condizioni e scoppiò la prima Guerra Israelo-palestinese che vide contrapposte la Lega Araba (Giordania, Iran, Egitto e Palestina) contro Israele, che vince il primo conflitto e va ad ampliare i suoi territori riducendo cosi l’estensione deliberata dalla risoluzione 181 al 22% del territorio regionale ai palestinesi.
La situazione rimarrà di stallo fino al 1967 quando con la guerra dei 6 giorni una nuova coalizione Araba proverà un secondo attacco ai territori occupati dopo il 1948 che si concluderà con una seconda vittoria Israeliani e la successiva riduzione dello Stato Arabo al 11% della superficie regionale. La risposta palestinese saranno gli attacchi terroristici del SETTEMBRE NERO del 1970 e del 1972 alle olimpiadi di Monaco.
Si arriva così al 1978 e al primo tentativo di pacificazione con gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele, che prevedevano il riconoscimento dello Stato Ebraico da parte degli Egiziani, i quali acceppavano la parte sudovest del territorio palestinese, e la liberazione del Sinai ad opera degli Ebrei, primo passo verso la pacificazione che però viene rallentato dallo scoppio della prima guerra del golfo nell’estate del 1980 e la trasposizione della guerra fredda a nord della regione israelo-palestinese. Nel 1982 l’esercito regolare palestinese invade il Libano per colpire le milizie palestinesi e nel 1987 scoppia la prima Intifada, ovvero la rivolta popolare contro gli israeliani invasori. La rivolta popolare si risolve con il riconoscimento da parte dell’auto proclamato Stato Palestinese dello Stato di Israele.
Pacificazione raggiunta? No.
Gli effetti della caduta dell’URSS e del muro di Berlino arrivano anche in Medioriente. L’Iraq occupa il Kuwait e scoppia la seconda guerra del golfo che coinvolgerà anche lo Stato di Israele e quello Palestinese nella posizione di alleanze geopolitiche assunte.
Finita la guerra del golfo, nel 1993 per mediazione americana vengono siglati gli accordi tra Rabin, presidente Israeliano e Arafat massimo esponente dell’OLP, nasce così ANP, che prende il controllo dei territori persi nel 1967 dai palestinesi, generando una situazione geografica ancora in essere con lo Stato palestinese formato dalla Cisgiordania a est di Israele e la striscia di Gaza e sud ovest.
In tutto questo viaggio storico nell’opposizione tra questi due Stati vanno inseriti i conflitti di natura religiosa, tra ebrei e mussulmani, tra mussulmani e cristiani, tra cristiani ed ebrei; la ricerca continuata di ingerenze di potenze e nazioni straniere nel conflitto per il raggiungimento di fini politici o economici; la creazione di organizzazioni terroristiche di stampo religioso; ed infine la miopia del tutto occidentale dalla pacificazione democratica a tutti i costi, come se una Nazione possa crearsi dal nulla tirando due linee su una cartina geografica, e poco importa dei costumi, delle religioni, delle tradizioni di coloro i quali si trovano tra le due “linee”.
Si arriva così ad una guerra perenne, a corrente alternata, fatta di raid e attività di guerriglia che provocano morti tra i civili e mai uno scontro tra gli eserciti. Che conseguentemente genera instabilità in un’area geografica che ha una storia millenaria essendo il centro nevralgico delle tre religioni monoteiste. Che lascia lo Stato più debole, quello Palestinese in una condizione di povertà assoluta facendo degenerare la crisi sociale e politica in una guerra fratricida tra i partiti laici e quelli religiosi come Hamas, organizzazione di stampo jihadista, che si conclude con la spartizione dello Stato di Palestina in due sub Stati, quello della Cisgiordania sotto egemonia Olp e quello di Gaza in mano ad Hamas.
Forse con questo quadro un po' più dettagliato riusciamo cercare di capire cosa succede in queste ore tra Israele e Palestina, e ci poniamo quindi anche delle domande; perché Hamas decide di attaccare così pesantemente Israele? Perché il più forte apparato di servizi segreti mondiali, il Mossad non riesce a prevenire tale attacco?
Tutto questo poi concomitanza con la riforma della giustizia avanzata dal governo israeliano che avevano sollevato non poche polemiche.
Tutto questo proprio mentre la più grande nazione araba, l’Arabia saudita, sta per riconoscere Israele come Stato legittimo, ovvero la fine del concetto di pan arabismo contro tutto ciò che arabo non è, quindi in questo caso gli Ebrei.
Sicuro è che la risoluzione della questione Israelo-Palestinese non può e non deve essere una democraticizzazione coatta della regione; l’unica via è il riconoscimento dello Stato di Palestina come Stato sovrano e di garantirgli la presenza come stato membro dell’Onu al pari dello Stato di Israele; la possibile riduzione dei territori israeliani ed il ritorno ai confini stabiliti dalla risoluzione 181,l’investimento di capitali in tutto lo Stato Palestinese e la messa al bando delle organizzazione terroristiche come Hamas; infine la possibilità di un libera circolazione di cittadini palestinesi e israeliani tra i due Stati.
La democrazia è un processo lento e culturale che non può né deve essere esportata, la libertà è un diritto inalienabile che prescinde religione etnia e geografia.
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