di Aleida Spaltro
La mattina del primo febbraio, una studentessa dell’Università Iulm di Milano è stata trovata esanime in uno dei bagni dell’ateneo: si sera tolta la vita qualche ora prima lasciando solo un biglietto di scuse per i suoi fallimenti. Dopo esattamente un mese una ragazza iscritta alla facoltà di lettere della Federico II di Napoli, ha compiuto lo stesso folle gesto: dopo aver mentito ai suoi familiari sulla discussione della sua tesi di laurea, si è lanciata nel vuoto e il suo corpo è stato trovato senza vita in un dirupo vicino casa.
L’ennesimo gesto insano da parte di uno studente, l’ennesimo fallimento di un sistema sociale, universitario ed educativo che mette al centro l’individuo come soggetto e non come persona.
Viviamo in una società dove è necessario dimostrare, dare e restituire, dove c’è una perenne corsa ad eccellere, a sorpassare i colleghi di banco, a terminare gli studi con i massimi voti e in tempi record, una società frenetica che non tiene conto dei tempi di ciascuno e che è pronta a scartare chiunque non rispetti le scadenze e i tempi predeterminati da chissà chi e cosa. Si sta affermando sempre di più una cultura in cui la soggettività non interessa a nessuno in quanto non valutabile, ma ciò che conta è la prestazione.
E la stessa società non insegna come affrontare le difficoltà, non insegna a metabolizzare e a reagire davanti a un fallimento e allora quando questi arrivano, perché prima o poi arrivano, non si sa come comportarsi e pensiamo che quella singola delusione circoscritta ad un determinato evento sia il fallimento totale della persona. Forse è arrivato il momento di essere consapevoli che gli insuccessi, le sconfitte e i voti bassi esistono, che avremmo sempre l’amaro in bocca dopo un esame non andato come speravamo, che ci sarà sempre un momento di sconforto per non aver ottenuto ciò che desideravamo; e tutte queste sensazioni non devono essere allontanate o evitate con ipocriti “va tutto bene”, piuttosto devono essere capite, sentite, vissute, assimilate perché insegnano il sacrificio, stimolano la tenacia, la costanza e il lavoro.
E mi permetto di rivolgermi alle famiglie: ai genitori non interessa più la formazione dei figli ma solo la loro promozione, la loro costante presenza all’interno delle scuole è sempre meno positiva perché il ragazzo, nel momento in cui entra a scuola e quindi in un contesto dove non è più protetto ed è uguale a tutti gli altri, deve vedersela da solo, deve imparare a tirar fuori il suo carattere e avere il coraggio di difendersi con le unghie e con i denti in un contesto dove la protezione della famiglia non è e non deve essere necessaria.
E poi la scuola, ma anche l’Università, che dovrebbero tornare a formare lo studente, a educarlo e non limitarsi ad istruirlo: l’istruzione altro non è che il passaggio di contenuti da una mente all’altra, l’educazione e la formazione invece si prendono cura dei sentimenti della persona.
E infine vorrei parlare agli studenti, a tutti quei ragazzi che sono anche miei colleghi: non vergogniamoci a chiedere aiuto quando sentiamo che qualcosa è troppo grande per affrontarla autonomamente, ad esternare ciò che abbiamo dentro, non sentiamoci in difetto o inferiori se il nostro percorso è diverso da quello che ogni giorno viene promosso dai social media e impariamo ad affrontare e superare ogni difficoltà che si presenta sul nostro percorso.
A Diana e a tutti quei ragazzi che non si sono sentiti abbastanza, tanto da non rendersi conto che a una improbabile e incerta delusione hanno sostituito un incancellabile dolore.
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