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Vespro Romano

Di Ilaria Telesca


“È vero che San Pietro dorme, ma San Paolo colla spada sta sveglio!”

 

C’è una differenza abissale tra i salotti borghesi e l’élite aristocratica.

Non si tratta di ceto sociale, il fulcro della questione è tutto spirituale, nel senso di fuoco che infiamma gli animi.

 

“I borghesi son tutti dei porci” cantava Gaber. Come dargli torto, in fondo la borghesia è un concentrato di rivoluzionari illuministi, che mettono l’uomo al centro e il relativismo come divinità (tanto per riassumere una merda massonica per cui, però, ci riserviamo ben altre righe).

Un cancro vero e proprio, che colpisce per lo più le comunità deboli – o indebolite – per plasmarle fino a devastare ogni tipo di peculiarità.

Un genocidio identitario, che spazza via le culture e impone diktat intellettuali, che frantuma le religioni e solidifica devozioni laiche.

 

Merda, cancro, genocidio. Nel 2025 la parola dev’essere l’arma della controrivoluzione, nell’era in cui vieni catapultato nello strano mondo dello shadowban se “P4l3stin4” non lo scrivi con i 4 al posto delle A e i 3 al posto delle E.

In realtà lo era anche nel 1798, quando tra le strade di Roma risuonavano dei sonetti particolari. Ne cito uno:

 

Mo che li Frosci [=francesi] avemo sparecchiato

Peppone mio, e più non ne vedemo,

de fa l’istesso in capo m’è sartato

con quanti pasticcetti in Roma avemo

che da questo vestì così sguajato

queste mode, che noi non conoscemo,

sto lenzolaccio ar collo attorcinato,

che portano quest’anime da remo:

senz’artro sti cagnacci, giuraddina!

C’hanno er grugno, e i carzoni alla francese,

so per certo de razza giacobina.

o se vestino tutti in antro arnese

o a furia de sassate nella schi[e]na,

li manneremo via da sto paese.

 

Parlare è lottare, e questi sonetti erano indispensabili per divulgare il disprezzo nei confronti dell’occupazione giacobina che avrebbe conquistato Roma di lì a poco.

Il 28 dicembre 1797 un soldato pontificio uccise il generale Duphot: perfetto casus belli che portò i Francesi a invadere lo Stato Pontificio e a costituire la Repubblica Romana (di stampo giacobino, ovviamente).

Da quel momento cominciarono una serie di imposizioni che infastidirono non poco i romani, in particolare gli abitanti dei quartieri periferici, popolari, radicati alle tradizioni.

La loro umiltà e la loro semplicità portarono questi romani a rifiutare categoricamente la soppressione delle festività religiose, la rimozione delle immagini sacre dalle strade della Città, l’imposizione di nuove tasse, l’abolizione dei simboli tradizionali. Chi mai avrebbe sostituito la croce con una coccarda tricolore? Chiaramente nessuno e fu proprio questo rifiuto che portò alla controrivoluzione.

Il 25 febbraio 1798 una pattuglia di guardie civiche intimò ad alcuni giovani di togliere dalla neo-coccarda tricolore la crocetta aggiunta sia come simbolo di identità, sia come sfida all’occupante. La risposta fu immediata e tali guardie civiche vennero gettate nel Tevere.

Quello stesso giorno tra le vie di Trastevere, all’ora del Vespro, il popolo romano cominciò la rivolta nei confronti dell’occupazione giacobina. Di lì a poco si unirono alla controrivoluzione anche altri quartieri romani, con una città messa a ferro e fuoco per due giorni, finché la cavalleria francese non riuscì a sopprimere le resistenze del popolo.

 

Breve ma intenso.

Non è, infatti, il risultato pratico della rivolta a dover essere ricordato, ma la sua portata morale.

La rivoluzione del salotto borghese non ha preso piede negli animi dei romani, identitari e cristiani.

Nelle vie di Trastevere, neanche il più progressista avrebbe mai urlato “Viva la libertà, viva la Repubblica Francese”. Nelle strade romane l’unico grido di battaglia era puro, accessibile, tradizionale: “Viva Maria, Viva il Papa”.

La libertà stava all’ora - e sta tutt’oggi - nel difendere “colla spada” di San Paolo una Tradizione immortale, che neanche la grande rivoluzione giacobina è riuscita a distruggere.

 

La nostra forza, straordinaria forza, sta nelle nostre differenze, nelle nostre identità locali, tutti piccoli elementi racchiusi in un grande insieme che è la Tradizione.

Grazie a Dio, siamo troppo innamorati delle nostre Patrie per accettare passivamente i frutti della Rivoluzione Francese, quando ancor oggi si cerca di omologare ogni singolarità e di uniformare culture differenti.

 

Quella maledetta Rivoluzione che cercò di imporre una spiritualità malata e basata sull’antropocentrismo, un culto dell’io che mai si è fermato purtroppo, ma anzi si è adattato ai tempi fino a diventare, nel secolo scorso, vera e propria devozione nei confronti del materialismo e del capitale.

 

Non siamo figli di un’ideologia borghese, siamo i suoi acerrimi avversari.

Oggi e sempre antigiacobini.

 
 
 

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