di Salvatore Perfetto
Dal 1989 in poi, con la caduta del muro di Berlino, si è avviato quel processo oggi definito impropriamente “fine delle ideologie”, che ha provocato la perdita di influenza politica, culturale e mediatica, da parte di quei partiti che si basavano sulle ideologie diffuse nel ‘900, come ad esempio il cristianesimo-democratico, il socialismo, il comunismo e la destra sociale.
In Italia, il crollo dei partiti ideologici è emerso in modo palese nel 1992, in seguito all’inchiesta giudiziaria “Mani Pulite” che ha visto coinvolti la maggior parte dei partiti italiani e ne ha sancito, per tanti, la fine.
I giovani, durante la “Prima Repubblica”, erano maggiormente coinvolti nelle dinamiche politiche in quanto i diversi partiti erano fortemente radicati sui territori, grazie alla presenza di circoli e sezioni. Le sezioni, che riuscivamo a creare delle vere e proprie comunità umane, fungevano da punti di aggregazione giovanile, centri in cui ci si formava culturalmente e da cui sarebbe nata la classe dirigente del futuro.
Infatti, buona parte dei politici degli anni ’70-90, proveniva da una militanza di lunga data che aveva permesso di poter partecipare attivamente alle elezioni politiche, potendo fare esperienza diretta nella gestione della “cosa pubblica”.
I partiti, inoltre, erano punti di riferimento culturali: a loro si deve la creazione di giornali di riferimento, dove partecipava un numero nutrito di giovani, i quali ottenevano una grande visibilità.
Con il passare del tempo, però, il sistema di politico istituzionale si è gradualmente trasformato in un meccanismo di autoconservazione del potere, determinando un malcontento generale nella popolazione che ha iniziato, dunque, a guardare al mondo politico come a una casta di privilegiati o di individui bramosi di potere.
Con l’avvento della “Seconda Repubblica” e il contemporaneo affermarsi di strumenti di comunicazione come i social network, abbiamo assistito a un cambio radicale nella scelta della classe dirigente e nell’attività dei partiti. Innanzitutto, si è iniziato a definire, in accezione negativa, chi provenisse da una militanza politica consolidata, con l’appellativo di “politici di professione”, rei di avere come obiettivo principale la conquista del potere e dei suoi conseguenziali privilegi anziché essere i rappresentanti delle istanze ed esigenze del popolo. Ai “politici di professione” si sono contrapposti i cosiddetti “uomini e donne della società civile”. Questi soggetti, sicuramente ricchi di risorse e capacità nei propri settori di appartenenza, hanno spesso dimostrato una scarsa conoscenza della macchina pubblica e non presentano, il più delle volte, una visione nuova di società che può derivante solo da una formazione culturale e da principi politici saldi. Le personalità della società civile sono risultati troppo spesso semplicemente utili a mettere in evidenze le esigenze della propria categoria invece che fungere da portavoce di un’intera comunità. Un qualcosa di analogo avveniva durante la nascita degli “Stati liberali”, nel XIX secolo, allorquando i Parlamenti nazionali erano composti da borghesi che tutelavano sostanzialmente la propria classe e quindi il proprio settore economico (commercio, mercantilismo ecc.). In questo nuovo scenario, i giovani hanno avuto sempre meno spazio nella dialettica politica perché le “persone della società civile”, prestati alla politica, nella stragrande maggioranza dei casi risultano essere in età avanzata e già ben affermati nella società. I partiti, fatta qualche eccezione come le tante comunità politiche che compongono la grande famiglia della destra italiana, non agiscono più attraverso un’organizzazione territoriale stabile, con circoli e sedi locali, ma prediligono quasi esclusivamente l’utilizzo di social, come Facebook o Twitter, senza riuscire a coinvolgere i cittadini sui territori, perdendo la propria caratteristica di aggregazione sociale e culturale. Solo nei periodi pre-elettorali, assistiamo all’apertura di sedi o circoli territoriali che poi, subito dopo le elezioni, tornano a essere luoghi chiusi o utilizzati solo da addetti ai lavori. I millennial, non avendo più dei luoghi ben definiti dove aggregarsi per agire in prima persona nel contesto politico, si sentono distanti dal mondo che li governa e, come unica valvola di sfogo, utilizzano i social senza però avere un coordinamento comune: ognuno esprime la propria idea e, il più delle volte, le esternazioni rimangono fine a sé stesse. Se i social venissero utilizzati alla mercé dei partiti e se questi ultimi ritornassero a svolgere la loro funzione originaria, probabilmente gli individui si potrebbero proiettare in una nuova condizione culturale, permettendo a tante giovani menti brillanti di avvicinarsi al mondo politico, dando una risposta concreta al malcontento popolare che non può essere soddisfatto con una mera e demagogica “antipolitica”, in tutto e per tutto. Più spazi di aggregazione, misti all’utilizzo delle piattaforme social; maggior coinvolgimento dei territori e autolimiti alla brama di potere potrebbero essere ingredienti funzionali al ritorno della fiducia nelle istituzioni.
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