di Andrea Piccinno
Oggi Yukio Mishima avrebbe compiuto novantotto anni, ma, come con i grandi uomini spesso accade, sono gli ultimi istanti della loro vita a racchiudere la totalità del loro messaggio.
Il 25 novembre del 1970, infatti, dal balcone dell’ufficio del generale dell’Esercito di Autodifesa giapponese, si affaccia un uomo di statura media, ma con uno spirito da gigante, l’ultimo vero samurai nipponico.
Si volta verso le migliaia di uomini del reggimento di fanteria che lo osservavano dal basso. Freddo, sillabando ogni singolo suono, sentenzia: «È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.» .
Subito dopo rientra nell’ufficio e, una volta inneggiato all’Imperatore, si toglie la vita tramite seppuku, il suicidio rituale dei samurai, lacerandosi il ventre e facendosi poi decapitare dal suo discepolo più fidato, Masakatsu Morita, anche lui morto suicida, pochi minuti dopo, per la vergogna di aver commesso un errore durante l’esecuzione.
Moriva così Yukio Mishima: autore più volte in odore di Nobel, scrittore giapponese più tradotto nel mondo, rivoluzionario drammaturgo e punto di riferimento assoluto per intere generazioni che vedono ancor oggi, nei suoi scritti e nelle sue gesta, il sacro e l’eterno.
Tutto, in Mishima, funge quasi da contorno all’Io, al sacro e all’eterno: un’identità forte, chiara, che si riflette a pieno nell’acceso nazionalismo delle sue scelte politiche e nell’intransigenza delle sue posizioni.
Era un kamikaze in tempo di pace, in grado di utilizzare la penna così come la spada. Aveva viaggiato per il mondo e in tutto il mondo era amato: leggeva Baudelaire, frequentò l’Italia e divenne intimo amico di Alberto Moravia, visse in Brasile, trascorse degli anni negli Stati Uniti e imparò, ben presto, ad odiarli. Viveva sulla sua pelle la graduale trasformazione del Giappone dalla sua dignità politica imperiale ai primi cenni di vera globalizzazione e colonizzazione americana, che realizzava il suo massimo apice nel Trattato di San Francisco del 1951.
L’errore più grossolano che si possa commettere, però, riguardo Mishima è ritenere il suo suicidio e la sua morte semplice simbolismo o inutile sacrificio. Al contrario, Mishima con la sua fine atroce rifugge in realtà la prigionia della vita, indicando a noi comuni mortali la vera strada verso l’immortalità: la morte come un’opera estetica dedita al sublime, capace di sottrarre la vita allo scorrere del tempo e metterla in mano alla propria affermazione assoluta.
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